venerdì 20 aprile 2018

prince, 'lovesexy'



ci sono pochi dubbi sul fatto che il tour di ‘lovesexy’ sia stato uno dei vertici di prince, uno spettacolo incredibile per musica, coreografia, trasporto e messaggio, con il nanetto incontenibile alla guida di una band che definire compatta è un eufemismo. sul disco invece, a mio umile parere, c’è da dire. non che sia un brutto disco, per carità, però l’ho sempre trovato mezza spanna sotto a ciò che l’ha preceduto, fosse anche solo per un paio di pezzi che sono mirabilmente rappresentati da quella copertina in cui genio ed egocentrismo si scontrano violentemente, provocazione e ridicolo fanno a pugni per comandare. 

partiamo da qui e chiamiamoli per nome questi pezzi, facciamoci dei nemici: ‘glam slam’, ‘anna stesia’e ‘i wish u heaven’ sono tre canzoni che ho sempre trovato un passo oltre la linea del ridicolo. la prima ha come colpa l’eccessiva spinta enfatica e un ritornello che invece che naif suona banale, oltre a momenti di grandeur ingiustificata che ricordano uno dei peggiori gruppi della storia, i queen (cosa orrenda che ricapiterà qualche anno dopo in ‘o(+>’). la canzone trova un momento migliore nella coda strumentale dissonante che per un minuto non suona come una presa in giro. ‘anna stesia’ è meno peggio, una ballata struggente, ancora una volta in parte rovinata da un’enfasi corale che ne sminuisce il potenziale, che si salva grazie ad un’interpretazione vocale eclettica e sentita e ad una bella chitarra che commenta l’intero brano come farebbe carlos santana (un’influenza più volte dichiarata apertamente dal prince chitarrista).
‘i wish you heaven’ invece l’ho sempre trovato un pezzo semplicemente brutto. fatto bene, ben congegnato, ben scritto ed eseguito, non si discute, ma brutto brutto brutto. la chitarra che prima commentava ora invade con un suono pacchiano e fuori contesto, le voci vorticano attorno ad una melodia stucchevole con tanto di doo-doo-doo-la-la-la demenziali. ha un vantaggio: dura poco, in meno di tre minuti scomparirà per sempre dalla vostra vita.

veniamo invece ai buoni motivi per ascoltare ‘lovesexy’.
‘eye no’ (='i know', se ve lo steste chiedendo) è l’unica prova di gruppo di un disco altrimenti dominato dal solo prince con shelia e alla batteria su tutti i pezzi meno tre; fiati ad opera dei fidi eric leeds e atlanta bliss e qualche coro qua e là, fine, tutto il resto è lui da solo. ‘eye no’ si diceva, la nuova versione di ‘the ball’, scartata due anni prima e ora rielaborata, un funk dall’aria spiritual (le prime parole pronunciate da prince sono ‘i know there is a heaven, i know there is a hell’), pieno zeppo di suoni di varia natura, apertura roboante di un disco eclettico ma più coeso dei precedenti. apertura buona ma poi tocca subito al capolavoro del disco, ‘alphabet st.’, ovvero la nuova ‘kiss’, dalla chitarra inconfondibile, il ritornello a mille voci, i cori assurdi che erano stati perfezionati nel biennio 85-86, una lunga sezione strumentale in cui ne succedono di ogni, un groove che è una sassata in fronte e, in generale, un’energia trabordante che esplode nel frenetico rap di kat. un vero colpo da maestro che non mancherà di far impazzire mezzo mondo, prima di venire criminalmente trasformato in un mediocre siparietto country-funk per il resto della carrriera live.
la divertente ‘dance on’ divide in due il disco, con una stupenda ritmica (tutta anni ’80) di sheila e e un synth basso che non escludo sia piaciuto moltissimo a trent reznor (confrontatelo con quello di ‘somewhat damaged’).
la canzone ‘lovesexy’ è probabilmente la più rappresentativa del disco, per farsi un’idea di come suona l’intero album si può ascoltare solo questo brano. esempio mirabile di anarchia controllata, è un pezzo in cui la struttura si disintegra in mille rivoli che si dividono e sovrappongono nel caos di voci, fiati, synth e chitarre; solo la ritmica resta stabile mentre attorno tutto balla in un’orgia che sembra aggiornare ‘1999’: se si balla ancora per la fine del mondo, ora si cerca la salvezza e si viene avvolti da una luce abbagliante. è un altro di quegli apici compositivi di prince che però non riesce a risultare incisivo come in passato, forse un po’ soffocato dall’eccessiva elaborazione. (curiosità: nella strofa la chitarra fa un riff che ricorda moltissimo quello di ‘escape’ dei journey, un paio d’anni dopo rubato anche da michael jackson per ‘black or white’.)
‘when 2 r in love’ arriva dal ‘black album’ e prosegue sulla linea di ‘condition of the heart’, una ballata riccamente arrangiata che gioca sui contrasti tra pieno e vuoto, aiutata dall’ennesima prova vocale incredibile e ottima per decomprimere dopo gli eccessi della title-track.
‘positivity’ chiude questo viaggio nel lato più eccessivo della musica di prince. all’inizio ci si stupisce per la misura che sembra voler mantenere, poi pian piano si torna al muro di suono di prima ma quasi non ce ne si accorge: il brano funziona proprio grazie a questa accumulazione graduale che continua a crescere e decrescere e ad una serie di melodie che ritrovano quei turbamenti di tensione mancanti in brani come ‘glam slam’ o ‘i wish u heaven’. è un altro brano che anticipa i rap degli anni ’90 senza essere realmente rap ma usandone la tecnica in alcuni momenti. i cori gospel sul finale testimoniano l’intenzione spirituale dell’album, lasciando che le ultime parole pronunciate siano “hold on 2 your soul”.

esiste una sola outtake di queste sessioni, ‘the line’, un pezzo influenzato dalle tendenze dance del momento che non va da nessuna parte, per quanto non sia orribile. due invece le b-side, ‘escape’ per ‘glam slam’ e ‘scarlet pussy’ per ‘i wish you heaven’ (ebbene sì, dopo ‘alphabet st.’ gli altri singoli sono stati i due pezzi peggiori del disco). la prima non è granché, gioca con qualche tema di ‘glam slam’ ma gira in tondo e non aggiunge niente; ‘scarlet pussy’ invece diverte con una narrazione fatta di voci filtrate, inserti melodici ad opera di sheila e e camille ed un tiro micidiale, un pezzo che avrebbe sicuramente meritato un posto sull’album principale invece che in panchina (magari proprio al posto di ‘i wish u heaven’)
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‘lovesexy’ è il primo disco di prince dall’82 a vivere di alti e bassi, il primo a contenere un paio di pezzi propriamente brutti che verranno infatti dimenticati molto presto, non però prima di aver fatto parte del grande circo che è stato il tour mondiale successivo.
è facile farsi un’idea di cosa fosse uno di quei concerti poiché la serata di dortmund è stata filmata, trasmessa e pubblicata in tutto il mondo (ho ancora la vhs registrata da rai due).
nei primi 5 minuti di concerto sale prince sul palco… in macchina (ford thunderbird, ovviamente). questo mentre la cassa scandisce il beat che rivelerà ‘erotic city’; ebbene sì, prince si permette di aprire i concerti con una b-side. non solo, nel farlo balla, striscia, corre e fa il cretino con sheila e mezza nuda che ogni tanto suona percussioni sparse in giro. era uno show che non lasciava nulla al caso, con coreografie complesse studiate nei dettagli, arrangiamenti evoluti strutturati in grossi medley della durata di varie decine di minuti in cui la band non si fermava un secondo. sul palco, oltre alla macchina, c’è un campetto da basket, oltre a varie passerelle e piazzole e un letto matrimoniale su cui succedono… cose. è un palco circolare posto in mezzo ai palazzetti ed è di dimensioni importanti, come si sarà intuito.
la prima parte dei concerti (la parte ‘oscura’, domaniata dal personaggio di ’spooky electric') era un best of di un'ora in cui si susseguivano senza sosta capolavori come la citata ‘erotic city’, ‘housequake’, ‘adore’, ‘head’, ‘little red corvette’ e ‘dirty mind’, oltre ad una carrellata di alcuni pezzi liricamente osceni come 'jack u off', 'head' e 'sister' che da qui in avanti non rivedremo mai più o quasi.
dopo questi 50 minuti arrivava il primo pezzo di ‘lovesexy’, ‘anna stesia’, appena prima della pausa. 
di contro, dopo cambi d’abito, acconciatura e scenografia, il secondo set (la parte luminosa, comandata dal personaggio di ‘lovesexy') era basato sul nuovo disco e lo suonava quasi per intero, con i brani intervallati da altre perle come ‘the cross’ o ‘kiss’. in questa sezione si riusciva a rendere più interessante anche un brano come ‘i wish u heaven’, con la chitarra a prendere il sopravvento. 
dopo il tamarrissimo assolo di batteria di sheila e, prince da solo al piano va a ripescare gioielli come ‘venus de milo’, ‘condition of the heart’ e ’strange relationship’ (in alcune date anche ’starfish and coffee’), prima di imbracciare la chitarra per il massacro finale con ‘let’s go crazy’, ‘when doves cry’, ‘purple rain’, ‘1999’ e ‘alphabet st.’, unico tour in cui quest’ultima veniva suonata in versione vicina all’originale. 

vediamo quindi che per un disco forse non ben bilanciato c’è un tour che è un’opera d’arte a sé, la fotografia migliore di questo straordinario periodo. il video di dortmund è superiore a ‘sign o’ the times live’ e almeno di pari livello con il live di ‘purple rain’ di syracuse.

da qui in avanti nulla sarà più uguale, prince farà pulizie nella vault con ‘graffiti bridge’ per poi toccare quello che fino ad allora era il punto più basso della sua discografia, il deludente ‘diamonds and pearls’. altri tempi, altri musicisiti, altre storie, magari un’altra volta. per ora restiamo nel sogno del circo di ‘lovesexy’ come se nulla fosse successo.

giovedì 19 aprile 2018

prince, 'sign o' the times'



ora che sapete cosa sta alla base di questo disco, è finalmente giunto il momento di parlarne.
è il 31 marzo 1987 (il 30 in inghilterra) quando 'sign o’ the times’ viene pubblicato e, ancora una volta, esplode in tutto il mondo. il lavoro di distillazione che prince ha compiuto sul materiale di ‘crystal ball’ ha smussato gli angoli, anche se il prezzo non è indifferente visto che per strada si perdono proprio ‘crystal ball’, ‘joy in repetition’ e ben 4 pezzi di ‘camille’ (‘rebirth of the flesh’, ‘rockhard in a funky place’, ‘shockadelica’ e ‘good love), oltre alla neonata ‘the ball’. ciononostante, il risultato è un altro miracolo e l’ennesima evoluzione di prince, sia musicale che estetica.

“prince con gli occhiali” è una buona sintesi della nuova immagine: non scompare il lato animale (anche se viene confinato in zone precise) ma all'improvviso viene allo scoperto il versante intellettuale e spirituale dell’artista, con testi che si inerpicano per gli insidiosi sentieri della critica sociale, della religione e delle questioni esistenziali, il tutto affiancato ai soliti momenti di festa e delirio, i quali però sembrano intrisi di una lieve malinconia.
di sicuro è il disco con cui prince torna in un contesto più legato al suo tempo, dopo due dischi fuori sincro come ‘around the world in a day’ e ‘parade’. il rap è esploso e non si può fare a meno di notarlo nelle ritmiche, è forse l’elemento più “nero” di un album che ancora una volta gioca sull’equilibrio fra suono afroamericano (‘housequake’, ‘slow love’, ‘it’s gonna be a beautiful night’) e rock bianco (‘play in the sunshine’, ‘strange relationship’, ‘the cross’).
'sign o’ the times’ è un ritorno netto di prince solista: sciolti i revolution, ri-registra vari brani per togliere i loro contributi oppure li annega nei mix per nasconderli, come nel caso di ‘strange relationship’ che qui perde l’aura etno-psych e si mostra come più semplice canzone pop; mossa vincente? per il disco sì, quei rimandi sarebbero stati forse fuori luogo, ma per quel brano in particolare no, poiché perde un pochino della sua magia.

qui finalmente la title-track arriva alla sua forma più compiuta, con la coda percussiva dopo l’assolo di chitarra. è un brano che è diventato paradigmatico per prince, sia liricamente che musicalmente: la ritmica scarna, la chitarra secca, pochi synth e la voce sinceramente preoccupata, è una formula che negli anni ’90 verrà ripresa più volte dall’artista. liricamente riesce invece a mettere un sacco di carne al fuoco senza mai essere troppo complessa o elaborata, il linguaggio è diretto come la musica ed il significato difficilmente fraintendibile (come invece succederà a volte in futuro).
‘housequake’ è uno dei capolavori assoluti, un brano con cui prince entra a gamba tesa sul mondo della musica, inventandosi un nuovo modo di suonare funk negli anni ’80 senza l’orrenda patina di plastica che ricopriva tutto in quel periodo. è un brano dalla struttura apparentemente aperta ma in realtà molto studiata (un’illusione che prince è sempre stato bravo a creare), se si pensa che i continui break chiamati alla band sono in realtà chiamati a… sé stesso, o al limite a leeds e bliss. 
altro miracolo è ‘the ballad of dorothy parker’, un pezzo che gioca con quell’immaginario psichedelico/sixties (cita apertamente joni mitchell) con cui ogni tanto prince si trastullava: strati sonori, campioni, voci parlate e una storia fatta di stanze violente, vasche da bagno e bolle di sapone, tutto in un suono morbido e vellutato che non aggredisce mai ma invece culla con una vibrazione malinconica che lo attraversa. parlando di psichedelia non si può evitare di citare ‘starfish and coffee’, ancora più in debito con la fine degli anni ’60 e i suoi suoni lisergici (qui abbiamo anche una chitarra in reverse alla lennon).
se il lato animale viene recintato in zone sicure (‘it’, ‘hot thing’, ‘u got the look’, tutte dal suono torbido e aggressivo), quello spirituale pervade un po’ tutto l’album, con frasi tra il filosofico e l’esistenziale che si insinuano anche nella title-track o in ‘play in the sunshine’ (“i’m gonna find my four-leaf clover, before my life is done, somewhere, somehow i’m gonna have fun”). la vera esplosione spirituale si ha in pezzi come ‘forever in my life’, ‘the cross’, ‘adore’ e ‘if i was your girlfriend’, ognuno con una sfumatura diversa: ‘the cross’ tocca ovviamente il tema religioso, con un mezzo spiritual in punta di piedi fino all’esplosione hard rock finale; ‘forever in my life’ gioca con l’ambivalenza amore-religione su un arrangiamento assurdo per batteria e voci (canoni, fughe, incastri, tutti strumenti che mostrano lo studio e la preparazione alla base di queste canzoni); 'adore’ è una delle più belle canzoni d’amore di prince, un flusso di parole in falsetto che verrà imitato più volte negli anni ’90 con scarsi(ssimi) risultati, accompagnato da un crescendo musicale da brividi; e infine ‘if i was your girlfriend’, capolavoro di ambiguità che, dietro a un’altra canzone d’amore, maschera uno slancio verso le grandi domande della vita, con il cambio di sesso come veicolo per ottenere maggiori risposte. è un brano sul cui aspetto psicologico ci sarebbe da parlare per ore, con prince che si immagina fidanzata del partner, mostrando una cura ed un’attenzione nei particolari che lascia a bocca aperta, un’immedesimazione quasi straniante per profondità.

delle outtake direi che ne abbiamo abbondamente parlato nell’articolo precedente, qui in più c’è solo la b-side di 'sign o’ the times’, ‘la, la, la, he, he, hee’, un pezzo musicalmente divertente ma che non aggiunge nulla al disco, se non un testo seriamente demenziale che pare sia uscito dalla penna di sheena easton (l’ha dichiarato lei nel 2012 e lui non ha mai contraddetto. non vedo perché avrebbe dovuto.) nell’87. di tutto il materiale eccelso che circonda questo disco, che proprio questa canzonetta sia stata scelta come b-side di 'sign o’ the times’ lascia seriamente perplessi (ne esiste una versione ‘highly explosive’ da 10 minuti, cercatela se non avete proprio niente di meglio da fare).

'sign o’ the times’ non è un disco difficile e non è un disco semplice. se lo mettete in macchina e alzate il volume ve lo godete tantissimo, se vi mettete a seguire i testi ascoltando il vinile sul divano ve lo godete in un modo completamente diverso, può essere preso sia superficialmente che in maniera profonda, motivo per il quale ha avuto quel successo spaventoso. in questo possiamo notare l’influenza su prince di una tradizione come quella di duke ellington, maestro nel costruire impalcature concettuali profondissime per poi ricoprirle da una melodicità irresistibile che conquistava il mondo.

e se non fosse bastato il disco per conquistare il mondo, il tour ha decisamente rincarato la dose. la voglia di cambiamento era evidente fin dalla scaletta, che presentava l'intero 'sign o’ the times’ meno ‘starfish and coffee’ e ‘strange relationship’ (guarda caso i due brani con i maggiori input dei defunti revolution) e ben poco dal passato: un medley con ‘let’s go crazy’, ‘when doves cry’ e ‘purple rain’, ‘1999’, ‘little red corvette’ non intera e ‘girls & boys’. 
esistono vari filmati di questo tour da affiancare a quello ufficiale, che però non è un vero live ma un ibrido tra studio, live e playback creato per avere una sorta di narrazione. sono spettacoli di grande carattere in cui però si avverte un assestamento in corso, che si realizzerà solo nel pazzesco tour di ‘lovesexy’, probabilmente il migliore di tutta la carriera. consigliato il video ‘for those of you on valium’, data di prova del tour al first avenue di minneapolis.

’sign o’ the times' è uno dei dischi più riveriti, ammirati ed imitati di un intero decennio e del pop in generale, un frullatore musicale in cui mille suoni, parole e colori si uniscono a formare una sola immagine, quella inconfondibile di prince. quella che a prima vista può sembrare un’opera slegata e poco coesa, all’ascolto si rivela un viaggio pianificato nei minimi particolari, da un inizio più terreno verso uno svolgimento sempre più spirituale, senza l’eccessivo slancio enfatico che romperà in parte le gambe a ‘lovesexy’. 

opera di equilibrio mirabile, frutto di una sintesi accurata ed intelligente, emblema della genialità di prince.

mercoledì 18 aprile 2018

prince 1985-1986: 'roadhouse garden', 'dream factory', 'camille', 'crystal ball'


se pensate che il periodo ‘purple rain’/‘parade’ sia un labirinto di outtakes e pezzi inediti, non avete idea di cosa sia successo dopo. avviso i naviganti che il seguente articolo è estremamente nerd in quanto parla di quattro dischi che non esistono, sono esistiti per un periodo limitato nella mente di prince, sono fatti di pezzi che sono rimasti nella vault e non sappiamo se mai ne usciranno in versione ufficiale. ringraziamo però generazioni di bootlegger che oggi ci permettono di averne delle versioni “ricostruite”, tramite i nastri trapelati negli anni, in versioni tranquillamente ascoltabili. 
parlando di materiale mai pubblicato, spesso ci si trova di fronte a brani con 3 o 4 versioni diverse registrate in periodi diversi, come ad esempio ‘witness 4 the prosecution’. va ricordato inoltre che almeno due membri dei revolution, ovvero wendy e lisa, quando intervistate al riguardo hanno messo in guardia chi cerca di ricostruire questi “dischi”, dicendo che per loro sono sempre stati un insieme di brani registrati in varie sessioni senza un grande disegno dietro. ma quando si parla di prince è sempre difficile capire in corso d’opera quale sia lo scopo finale, non è uno di quei disegnatori che con due tratti ti fanno già capire il soggetto, lui operava a canzoni e poi tirava le fila alla fine. forse. invece susannah melvoin, sorella di wendy e allora compagna di prince, ha dichiarato che almeno ‘dream factory’ per un periodo era stato un progetto di album, almeno stando a quello che le diceva prince stesso, oltre al fatto che di ‘camille’ esistono foto di un test pressing.
insomma, un sacco di seghe mentali e un cercare di ricostruire quel/quei tassello/i mancante/i che sta/stanno tra ‘parade’ e ’sign 'o' the times’. pronti, via.

i: roadhouse garden

rispetto ai "dischi fantasma” successivi, il progetto ‘roadhouse garden’ orbitava (ipoteticamente) attorno ad una serie di pezzi che non sono più stati pubblicati e non sono sempre semplici da reperire, a parte alcuni, come ad esempio la canzone ‘roadhouse garden’, recentemente inserita nel disco di inediti della ristampa di ‘purple rain’, nella versione attaccata a ‘our destiny’. questi sono i due brani che si possono ascoltare in qualità migliore (insieme a ‘wonderful ass’ dalla stessa ristampa) e sono indubbiamente un ascolto interessante. nella versione pubblicata troviamo wendy alla voce nella prima parte e prince nella seconda, è un pezzo volutamente naive che ricorda la teatralità di kate bush in ‘hounds of love’, sebbene wendy melvoin non sia kate bush. prosegue un discorso sempre più europeo iniziato con ‘condition of the heart’ e proseguito con ‘take me with u’, ‘i wonder u’ e ‘do u lie’ in cui le sonorità classiche filtrano nella sensibilità di prince tramite wendy e lisa.
‘splash’ è un altro pezzo che è stato pubblicato, in questo caso nel ’98 quando, dal nulla, prince (all’epoca o(+> ) (scusate, ci tenevo a farlo) ha annunciato di voler pubblicare una versione ricostruita del disco. ovviamente poi non se n’è fatto nulla, pare perché wendy e lisa erano lesbiche e quindi gesù non voleva. ad ogni modo, il pezzo è stato pubblicato online e possiamo quindi godere della sua atmosfera delicata e jazzata, caratterizzata da un uso massiccio di armonie vocali, fino al morbido finale dal club notturno.
altri brani trapelati nel tempo sono ‘teacher, teacher’, ‘in a large room with no light’, ‘witness 4 the prosecution’, ‘wally' ed ‘empty room’. sono brani molto diversi tra di loro, tanto da far traballare l’ipotesi che dovessero stare sullo stesso disco; è anche vero che se avessimo sentito i demo di 'parade' senza conoscere il disco l’impressione non sarebbe stata molto diversa. 
‘teacher, teacher’ è sicuramente sulla linea di ‘roadhouse garden’: evidenti il contributo di wendy e lisa, che prendono la lead per buona parte del brano, un retrogusto psichedelico/europeo 60s e una leggerezza di fondo che rendono il brano gradevole e fresco.
‘in a large room with no light’ (titolo originale ‘life is like looking for a penny in a large room with no light’) è invece segnata da un testo scuro e paranoico, in cui l’ombra della guerra incombe come faceva in ‘ronnie, talk to russia’ e come farà in ‘sign o' the times’. questa oscurità è però bilanciata da un arrangiamento latin/calipso stratificato e complesso, in cui le melodie arrivano a ricordare le obliquità di frank zappa. nella versione che si trova più comunemente è bene notare come alla batteria troviamo già sheila e invece di bobby z e il nuovo arrivato levi seacer jr. al basso, musicista che resterà al fianco di prince per molto tempo, passando nei primi ’90 alla chitarra ritmica; vediamo qui come i revolution si stessero già disintegrando lentamente.
‘wally’ è un brano dalla storia curiosa e, nella sua versione originale, è uno degli inediti più ricercati e riveriti di prince, aiutato dalla sua leggenda: il brano parla della fine del rapporto con sussannah melvoin, sorella di wendy; pare che la prima versione registrata fosse stata considerata da prince troppo personale e intima, per cui fece cancellare completamente i nastri a susan rogers, la quale dichiarò anni dopo che quella fu una delle poche volte in cui vide prince mettersi veramente a nudo. io ovviamente non ho idea di come potesse essere questa versione, probabilmente nessuno ce l’ha a parte prince stesso e la rogers, quello che ci è pervenuto è una stesura successiva, in cui eric leeds e atlanta bliss aggiunsero i fiati e prince complicò ulteriormente l’arrangiamento, quasi a volersi nascondere dietro gli strati di suono. è un bel pezzo, ben scritto e ben arrangiato, tuttavia vien da pensare che se non avesse la leggenda alle spalle non sarebbe così riverito.
‘empty room’ ha un’altra storia travagliata: registrata nell’85 coi revolution, fu scartata salvo essere ri-registrata nel ’92 per il film ‘i’ll do anything’ e poi scartata di nuovo; però nel ’94 prince pubblicò un video usando le registrazioni originali dell’85 per cui è facilmente reperibile. è un brano molto aperto, un po’ sulla scia di ‘another lonely christmas’, dall’esecuzione energica contrapposta al falsetto leggero della voce.

di ‘witness 4 the prosecution’ esistono varie versioni: la prima vede il solo prince all’opera su tutti gli strumenti, la seconda (di un paio di settimane dopo) invece è riempita da wendy (chitarra e cori), lisa (hammond e cori), eric leeds e atlanta bliss (fiati) e risulta più piena, più rifinita e sicuramente più incisiva. alla terza versione ci arriveremo a tempo debito, quella che è stata intesa nel ’98 per la pubblicazione di ‘roadhouse garden’ era la seconda versione, del 15 aprile 1986. è un brano fittamente arrangiato e curato, alla maniera di ‘wonderful ass’, e funziona magnificamente con la sua fusione di chitarre rock lerce e un tiro funky bestiale, un suono non lontano da quello che avrà ‘lovesexy’ in pezzi come ‘scarlet pussy’.
anche ‘wonderful ass’ ha passato la sua bella trafila di rimaneggiamenti: la versione originale dell’82 è stata registrata, come sempre, in solitaria dal nanetto con jill jones ai cori; nell’84, dopo un lavoro di arrangiamento che pare sia stato estenuante, wendy e lisa hanno aggiunto chitarre, tastiere e cori. questa è la versione che sembra sarebbe finita su ‘roadhouse garden’, è un brano pieno di linee melodiche che si incrociano, ricco di timbriche fino quasi alla saturazione e tirato dalla magica chitarra funky onnipresente, un altro mirabile esempio delle capacità di arrangiatore di prince.

gli ultimi brani che prenderò in considerazione non si sa bene per cosa fossero intesi. provengono da una delle ultimissime sessioni in studio dei revolution, a questo punto estesi a band di 9 elementi, alla washington avenue warehouse di minneapolis nel giugno dell’86. due di questi pezzi erano negli archivi già da un po’ di tempo e sono ‘we can funk’ e ‘can’t stop this feeling i got’, gli altri due invece sono nuovi e si chiamano ‘girl o’ my dreams’ e ‘data bank’; come sappiamo i primi due brani saranno poi usati in ‘graffiti bridge’ mentre ‘data bank’ finirà su ‘pandemonium’ dei the time, lasciando ‘girl o’ my dreams’ nel dimenticatoio. non che sia un pezzo memorabile, qui fa il paio con ‘can’t stop’, ancora nella sua versione rockabilly: è un pezzo leggero e divertente in cui però si nota la compattezza della band. ‘we can funk’ è in una versione invece grandiosa, pari a quella pubblicata: il gruppo suona in maniera incredibile, energici e sporchi al punto giusto, la prestazione vocale è perfetta e alla produzione manca quella patina plasticosa che ci sarà su ‘graffiti bridge’. ‘data bank’ è invece il classico funk secco del periodo ‘parade’, otto minuti e mezzo di groove inarrestabile e fronzoli di fiati, piuttosto diversa dalla versione tastierosa e pompata dei the time.
esiste un altro brano del periodo, ‘go’, di cui però ho potuto ascoltare solo poco più di un minuto, per altro in bassa qualità; sembra un brano che avrebbe potuto stare su un disco con ‘splash’ e ‘roadhouse garden’, con wendy e lisa in primo piano e gli archi sintetici che giocano sullo sfondo.

come potete vedere c’è molta confusione. forse perché, come tutti i musicisti coinvolti dicono, prince non aveva in mente un disegno preciso per questo ‘forse album’; di contro, ascoltando la musica prodotta, non è affatto difficile immaginare un album che contenesse ‘roadhouse garden’, ‘our destiny’, ‘empty room’, ‘splash’, ‘wonderful ass’, ‘witness 4 the prosecution’, ‘teacher, teacher’ e ‘in a large room’. le affinità tra questi brani sono lampanti  ed è bello crogiolarsi nell’idea che ci fosse un ordine in questo periodo della carriera di prince. purtroppo non ne abbiamo alcuna conferma per cui, come ho detto all’inizio, avete appena letto un sacco di seghe mentali. 
e siamo solo a un quarto della storia.

our destiny/roadhouse garden:

splash:



in a large room with no light:



empty room:


ii: dream factory

‘dream factory’ sarebbe stato l’ultimo disco di prince coi revolution, se fosse mai esistito. l’ipotesi più accreditata è che sarebbe stato un doppio, composto in larga parte di brani che sarebbero poi finiti nell’ipotetico ‘crystal ball’ e poi nel reale ‘sign o’ the times’ (sì, prima o poi torneremo alla realtà, promesso). oppure è possibile che nulla di tutto questo fosse vero e si tratti solo di una serie di canzoni che già guardano avanti ad un altro ulteriore progetto o invece non guardano a niente e si sono solo accumulate. 
alla tracklist pare che prince ci fosse arrivato davvero, da questa si evince un disegno generale non distante dall’eterogeneità di ‘sign o’ the times’ (la cui title-track compare proprio qui per la prima volta), con brani di vario genere e suonati da formazioni diverse ma ancora con un deciso contributo dei revolution.

in apertura, ad esempio, sembra che avremmo trovato ‘visions’, un pezzo scritto e suonato dalla sola lisa coleman al piano, che rivela il suo corredo classico ai tasti, un’introduzione soffusa che fluisce nell’intro di ‘dream factory’ (ovvero ‘a place in heaven’ al contrario), pezzo dal groove bestiale e dai suoni strampalati, con un profilo melodico che non sarebbe stato fuori luogo su ‘graffiti bridge’. è un pezzo davvero bello e per fortuna possiamo goderne appieno, grazie ancora una volta al ‘crystal ball’ del ’98.
‘train’ è invece un brano ossessivo, più o meno come sarà ‘it’ ma più pieno, cantato in falsetto funky e accompagnato da eric leeds e atlanta bliss ai fiati.
a seguire troviamo una serie di brani di cui parlerò più avanti quando arriverò a ‘sign o’ the times’, poiché sono qui presentati in versione molto vicina, se non identica, a quella che verrà pubblicata su quell'album: ‘the ballad of dorothy parker’, ‘it’, ‘slow love’, ‘starfish and coffee’, ‘sign o’ the times’, ‘i could never take the place of your man' e ‘the cross’. visto come questi brani sono poi stati pubblicati tutti insieme, viene naturale pensare che sia molto probabile che questa configurazione rappresentasse effettivamente un disco doppio, progettato prima dello scioglimento dei revolution. a questo punto però stupisce che in nessuna configurazione ipotizzata del disco sia mai comparso nessuno dei brani scritti poco prima per ‘roadhouse garden’, svaniti nel nulla. le vie di prince sono (erano) infinite e probabilmente non avremo mai risposta a questi quesiti, quindi andiamo avanti con il più sfrenato onanismo musicologico.
da notare come in mezzo a questi brani si trovi un ‘interlude’ di sola chitarra ad opera di wendy, quasi a voler bilanciare con l’introduzione dell’album di lisa.

‘strange relationship’ ha una storia travagliata, come molti brani di questo periodo. scritta e registrata da prince solista nell’83, viene rielaborata nell’85 da wendy e lisa che sovraincidono effetti di sitar, percussioni e flauti. questi contributi verranno eliminati o soffocati nel mix nella versione su ‘camille’ e ‘sign o’ the times’, questo per minimizzare il contributo delle due revolution nei dischi (che erano fondamentalmente un ritorno di prince da solo in studio). è un pezzo dall’aria piuttosto triste ma dal bounce micidiale, la cui melodia è enfatizzata dai diversi timbri in gioco.
sulle ipotetiche tracklist di ‘dream factory’ compare anche la prima versione di ‘crystal ball', senza le orchestrazioni di clare fischer. è una versione interessante che mostra lo scheletro del brano e le precise intenzioni di prince (qui suona tutto da solo, si aggiungeranno i cori di susannah melvoin e l’orchestra) ma è anche inferiore alla versione completa, teoricamente inserita nel successivo album fantasma e poi pubblicata nel ’98 nell’omonimo triplo. che però è un altro disco. è dura essere fan di prince. ad ogni modo di questo brano tratterò approfonditamente più avanti perché ci tengo particolarmente.

‘a place in heaven’ lascia il microfono a lisa coleman per un 6/8 morbido e vagamente lisergico, con un fastidioso clavicembalo in sottofondo e una melodia dolce, forse fin troppo. invece ‘last heart’ irrompe con tutto il suo minneapolis sound, completamente eseguita da prince con leeds ai fiati e susannah melvoin ai cori, un pezzo che non lascia dubbi sul suo periodo di composizione (non avrebbe sfigurato su nessun disco tra ‘parade’ e ‘lovesexy’), bellissima, un groove che va come un treno e la voce leggera di prince ad anticipare ‘camille’.
‘witness 4 the prosecution’ è un viaggio nel funk più zozzo, basso profondo, fiati, hammond, cori e tutto quello che serve. è uno dei brani inediti più amati dai fan ed è facile capire perché, da sola vale più della maggiorparte della produzione anni ’90 del nostro, avrebbe sicuramente meritato un posto almeno su ‘graffiti bridge’ al posto di qualche ‘love machine’ a caso.
‘movie star’ è un pezzo divertente, scritto per morris day dei the time. ancora funky ma più sottile e sexy di ‘witness’, solcato dallo spoken word di prince, un racconto di night club, donne e altri cliché assortiti, molto divertente. (se ci sono fan dei pain of salvation: nulla mi toglierà dalla testa che gildenlow avesse in mente anche questo brano quando ha costruito mr. money su ‘be’)
della beatlesiana ‘all my dreams’ abbiamo discusso nella recensione di ‘parade’, pare ci fosse l’intenzione di includerla in chiusura di ‘dream factory’, forse no, forse non importa visto che questo progetto sembra sia durato solo un attimo, se mai è successo. 
infatti, poco dopo...

visions/dream factory:

train:

last heart:

movie star:


iii: camille

infatti, poco dopo, “ciao ciao revolution!”. 
come qualcuno ha detto (matt thorne in ‘prince’, gran bel libro, consigliato), da un certo punto di vista lì per lì potrebbe essere stato un bene, poiché ha riaperto ogni possibilità sonora davanti a prince; oggi si potrebbe dire che se si fosse trovato un compromesso, una 'relazione aperta' come quella di neil young coi suoi crazy horse, probabilmente avremmo visto ancora dei gran dischi. il livello degli album di prince resterà ancora altissimo per almeno altri tre anni ma il crollo che avverrà nei primi ’90 avrebbe potuto trovare nuove vie di sfogo con la vecchia band. e vabbè.

quello che invece è successo a questo punto è che prince si è rinchiuso in studio ed ha registrato una serie di canzoni che sfruttavano una tecnica sperimentata prima su ‘erotic city’ e poi su ‘crystal ball’: i nastri con le voci venivano accelerati, modificando così il tono della voce stessa e dando vita a camille, l’alter ego femminile di prince, nonché il titolo del disco mai pubblicato. questa volta però ci sono prove concrete dell’intenzione di prince di portare questo materiale fuori dallo studio, solo che la sua proposta alla warner pare sia stata peculiare: pubblicare il disco con il nome camille in copertina, senza alcun riferimento a prince da nessuna parte. o forse non è andata così e semplicemente non era soddisfatto di com’era venuto il disco. del resto nello stesso identico periodo vengono scritti anche i pezzi del ‘black album’, altra leggenda da tramandare (anche se ormai più sbiadita, vista la pubblicazione del disco nel ’94) e altro disco di cui prince si è dichiarato insoddisfatto.
l’ispirazione per l’idea della voce pare sia arrivata dalla lettura dei diari di herculine barbin, ermafrodita di metà ‘800 soprannominato camille, i cui scritti ebbero diffusione proprio negli anni ’80.
ad ogni modo, i pezzi dell’album sono stati tutti pubblicati successivamente, in vari momenti e formati, per cui ‘camille’ è facilmente ricostruibile (e ancora una volta, se vi procurate ‘work it’ potete ricostruirlo con le versioni intese appositamente per quel disco) (no, non lo fate, ‘work it’ è il male, la vostra vita non potrà mai più vivere, state lontani).

‘rebirth of the flesh’ è stata pubblicata in mp3 dall’npg music club in una versione live dell’88, purtroppo inferiore alla versione in studio. è un brano in bilico tra funk e dance, piuttosto oscuro sebbene molto melodico che però definisce bene il clima ambiguo del disco, incarnato poi nel capolavoro ‘housequake’, qui presente nella versione che finirà poi su ‘sign o’ the times’, così come ‘strange relationship’ e ‘if i was your girlfriend', per cui se ne riparla quando sarà il momento.
‘feel u up’ (pubblicata nell’89 come b-side di ‘partyman’ dalla colonna sonora del primo batman di burton e poi nel ’93 sul terzo cd di ’the hits/the b-sides’) risale all’81, registrata all’epoca in una versione per nulla lontana da quella considerata qui, solo più grezza. fa il paio con ‘rebirth of the flesh’ giocando con funk e dance, svuotando e riempiendo continuamente il suono in un gioco di sovrapposizioni soprattutto ritmiche. in entrambe le canzoni il tono alieno della voce sposta la percezione del brano in maniera magica, è prince ma non è prince, è una nuova incarnazione che sarebbe lecito aspettarsi abbia bisogno di tempo per esprimersi al meglio mentre qui la sua espressività è già sbalorditiva, riuscendo a passare dal tono dimesso di ‘girlfriend’ a quello aggressivo di ‘rebirth’ o di ‘shockadelica’.
proprio ‘shockadelica’ è stato il primo pezzo ad essere scritto per il progetto; oltre ad essere gustosamente oscuro e abrasivo, è un brano interessante anche per il suo evidente fare i conti con la nuova realtà del rap, senza essere di per sé un brano rap (così come ‘housequake’). la base ritmica in loop, il testo a tratti libero, i suoni usati come samples, sono vari elementi che fanno pensare che prince in questo periodo volesse incorporare elementi di quella nuova forma di black music (lo farà in modo palese negli anni ’90, purtroppo con risultati spesso ridicoli).
‘good love’ è un brano dall’anima più pop che punta già a ‘lovesexy’ con i suoi suoni brillanti e cori esplosivi, pubblicato nel '98 nel cofanetto 'crystal ball'. 
in conclusione al disco troviamo ‘rockhard in a funky place’, unico brano ad avere un credito esterno per la composizione, ovvero eric leeds che ha scritto gli arrangiamenti di fiati suonati da lui medesimo e atlanta bliss. è stata poi pubblicata sul ‘black album’ nel ’94, è una canzone, come dire… cazzuta. asciutta ma diretta in faccia, nonostante i mille fronzoli vocali svolazzanti, marchiata da un assolo di chitarra fantastico che segue in una sezione di fiati incredibile.
inoltre in questo periodo viene prodotta la terza versione di ‘witness 4 the prosecution’, non si sa se per questo progetto o meno, fatto sta che è un pezzo diverso dalle versioni precedenti, vede il solo prince cantare su una base scura e acida senza più tutti i contributi dei revolution, una vera dichiarazione di intenti. la voce non quella di camille ma è più sottile del solito e sembra tendere in quella direzione, così come l’arrangiamento che ricorda le idee di ‘rebirth of the flesh’.

la grossa differenza tra ‘camille’ e i dischi più o meno fantasma che gli stanno attorno è che questo disco ha evidentemente una sua coesione, una forma, un inizio ed una fine. sicuramente la scelta della voce filtrata aiuta a tenere insieme il tutto, creando un concept che magari qualcuno potrà trovare fin troppo marcato ma rappresenta anche uno dei vertici della creatività e capacità espressiva di prince.
è un peccato che non sia mai stato pubblicato in questa forma ma è anche vero che, se fosse successo, oggi avremmo un ‘sign o’ the times’ diverso. chissà. mentre anche questo progetto naufragava insieme al 'black album’, nel buio iniziava a brillare la sfera di cristallo.

rebirth of the flesh:

rockhard in a funky place:

good love:


iv: crystal ball

‘crystal ball’ è un disco triplo inedito di prince. ma no, dice, l’ha pubblicato nel ’98. no, si chiama crystal ball anche quello, è triplo ma è un’altra roba. quindi è una versione embrionale di ‘sign o’ the times’? embrionale un paio di palle (di cristallo, si intende), contiene l’intero album ‘sign o’ the times’ tranne ‘u got the look’, più altri 7 pezzi, uno dei quali di più di 10 minuti. se il suo illustre successore è un doppio, ‘crystal ball’ sarebbe stato triplo e proprio per questo venne rifiutato dalla warner, troppe le complicazioni per pubblicare questo mostro, quindi prince tornò poco dopo con la nuova versione ridotta a doppio disco e con il nuovo titolo.
dei 7 pezzi aggiunti, 4 provengono da ‘camille' (‘rebirth of the flesh’, 'rockhard in a funky place’, ‘shockadelica’ e ‘good love’), uno da ‘dream factory’ (‘crystal ball’, nella sua versione completa) e due sono nuovi (‘the ball’ e ‘joy in repetition’). 

è difficile per me dire quale sia la mia canzone preferita di prince ma ci sono buone possibilità che se mi puntassero una pistola alla testa per avere una risposta, risponderei ‘crystal ball’. si può tranquillamente dire che sia la sua canzone più vicina al progressive rock, coi suoi 10 minuti (più o meno abbondanti, a seconda della versione) di evoluzioni, cambi di umore e sezioni strumentali. è una prova di composizione incredibile, riesce a far stare insieme funky, rock, orchestrazioni classiche vertiginose, momenti di vuoto inaspettati, il tutto con un trasporto torrenziale ma senza mai perdere il controllo. dall’iniziale, semplicissima cassa a morto alle complesse sezioni centrali, è un vero e proprio catalogo delle possibilità compositive di prince senza freni, con un profilo melodico estremamente preciso che affascina, complice la scelta di interpretare il brano con la voce aliena di camille. è una canzone formalmente perfetta, come dovrebbe essere una sfera di cristallo: più vi si guarda in profondità, più si notano particolari e sfumature diversi a seconda di dove si concentra l’ascolto.
‘the ball’ verrà scartata nella sintesi di ‘sign o’ the times’ ma, rielaborata e con testo diverso, diventerà ‘eye no’, ovvero il primo brano di ‘lovesexy’. interessante la parte centrale che unisce esulti rap e chitarre in reverse anni ’60 in un’atmosfera festosa ma non rilassata. qui la coda finisce direttamente nell’altro brano nuovo, ‘joy in repetition’. è una litania straniante, la storia di una canzone lunga un anno, interpretata da prince in una delle sue prove più emotive, sia alla voce che alla chitarra, protagonista di un solo eccezionale nel finale. verrà poi pubblicata su ‘graffiti bridge’ in questa versione, solo nettamente ripulita nei suoni. è un’altra di quelle canzoni che reputo al vertice della produzione di prince, sicuramente nella mia top 5 personale.

qui vengono introdotte anche ‘play in the sunshine’, ‘forever in my life’, ‘it’s gonna be a beautiful night’ e ‘adore’, intitolata ancora ‘adore (until the end of time)’, tutte nella versione che finirà su ‘sign o’ the times’ o comunque molto vicine. questo rende l’idea della prolificità compositiva di prince in questo periodo, capace di scrivere pezzi uno più bello dell’altro in quantità francamente imbarazzanti per chiunque altro. con tutti i problemi, le rotture, le crisi di questo periodo, è impossibile negare che tra l’85 e l’86 prince abbia avuto un’esplosione artistica che ha ben pochi simili nella storia della musica leggera, se ne ha (non dimentichiamo che durante questi due anni escono 'around the world in a day', 'parade' e il film 'under the cherry moon', viene registrato il materiale di 'the flesh' e del primo disco dei madhouse e intanto si svolge il tour di 'parade'). non è solo questione di quantità ma ovviamente anche di qualità, parliamo di canzoni che o sono state singoli di successo mondiale o fanno parte di uno dei dischi più riveriti degli anni ’80 oppure sono roba come ‘crystal ball’, ‘rebirth of the flesh’ o ‘joy in repetition’. non era concorrenza sleale, semplicemente non poteva esserci concorrenza.

crystal ball:

joy in repetition (live):

the ball:



spero di non avervi annoiato troppo, ora forse sapete qualcosa in più sul periodo più misterioso della carriera di prince, uno dei più confusi ma anche il più prolifico e qualitativamente elevato. se frugate un po’ in giro trovate tutto (soulseek può esservi molto amico), ascoltate e fatevi anche voi un’idea, tra qualche giorno parliamo di ‘sign o’ the times’.

martedì 17 aprile 2018

prince and the revolution, 'purple rain' (2017 deluxe edition)


questa è un’appendice alla recensione di ‘purple rain’, mi occuperò della ristampa/remaster uscito nel 2017.

partiamo dal remaster e finiamo in fretta: fa schifo. tenetevi la vostra copia originale o, meglio ancora, il vinile, questa versione è super-compressa, ammazza le dinamiche e stanca le orecchie, da evitare come la peperonata a colazione.
il resto del pacchetto invece vale moltissimo poiché contestualizza benissimo il disco nel suo periodo all’interno della carriera di prince, con ben due cd ed un dvd “bonus” (il bonus trascurabile qui è il disco principale, per i motivi detti poco fa).

partiamo dal cd di materiale già edito, versioni singolo e b-sides. i singoli sono le canzoni che già conoscete (o dovreste conoscere), in versioni tagliate o allungate, dove la più interessante è lo ‘special dance mix’ di ‘let’s go crazy’ che aggiunge un’intera sezione strumentale in mezzo al brano riuscendo a non uscire dal mood originale.
della versione estesa di ‘i would die 4 u’ è invece da notare la comparsa di un sassofono (quello di eddie m) che preannuncia l’inizio imminente della collaborazione con eric leeds, oltre all’uso massiccio di percussioni (sheila e) che dona un tocco latin, un pochino fuori contesto ma ulteriore prova della creatività di prince.
delle b-side abbiamo già parlato, nulla di particolare da segnalare se non che ‘god’ è presente in entrambe le versioni e di ‘erotic city’ e ‘another lonely christmas’ sono presenti anche le versioni estese.

veniamo al bello. il secondo cd, ‘from the vault & previously unreleased’, contiene perle di vario genere di questo periodo. di alcune abbiamo già parlato (‘computer blue’ nella recensione principale), ‘our destiny/roadhouse garden’ arriveranno a breve, ‘we can fuck’/‘we can funk’ è sparsa un po’ in giro (e ne riparleremo), cosa resta? una marea di roba, ‘the dance electric’ ad esempio, che apre questo cd con undici minuti e mezzo di beat incessante e splendide linee vocali su un tessuto sonoro sintetico che suona spaventosamente moderno anche oggi. scritta per andré cymone e pubblicata sul suo terzo album, ‘a.c.’, in una versione identica ma accorciata a 4 minuti e mezzo e cantata da cymone, comunque interamente suonata da prince.
‘love and sex’ è nettamente più vicina all’universo viola, una canzone festaiola e sostenuta, fittamente arrangiata con synth e cori, non al livello del disco principale ma comunque bella.
c’è chi avrebbe addirittura preferito che ‘electric intercourse’ non venisse sostituita da ‘the beautiful ones’ in ‘purple rain’, personalmente non sono tra questi ma non si può negare il valore di questa ballata. distesa e fresca ma non senza profondità o momenti inattesi di tensione, mostra una prova vocale ancora una volta straripante, vero fulcro del brano che non conta sull’arrangiamento a incastri di ‘the beautiful ones’ ma si regge su un pianoforte morbido.
‘possessed’ è un altro pezzo forte del disco, perfetto veicolo per il lato più istrionico di prince nei concerti del tour. scritta e registrata in solitaria nell’83, è una canzone che sta più verso il suono dance/synth di ‘1999’, tralasciando la ventata rock del periodo e riportando l’ascoltatore all’orgia apocalittica che caratterizzava quel disco.
‘wonderful ass’ è un pezzo a cui evidentemente prince teneva molto, visto che ne ha registrate varie versioni con vari arrangiamenti. quella presentata qui è la versione più evoluta del periodo in cui il brano era stato (ri-)arrangiato insieme a wendy e lisa, dopo le iniziali registrazioni in solitaria del novembre ’82. è un brano che si basa sulla profonda stratificazione sonora, sulla ricchezza timbrica e su una serie di melodie eteree e stralunate, rese perfettamente dal trio di voci armonizzate. vista l’evidente mole di tempo investita nel pezzo stupisce che non sia mai stato pubblicato in un disco successivo.
se ‘velvet kitty cat’ è un divertissement trascurabile, ‘katrina’s paper dolls’ si inserisce in quella linea di brani che avrebbero dovuto comporre ‘roadhouse garden’, ipotetico disco dei revolution mai realizzato; una canzone melodica e trasognata, continuamente punteggiata dai synth. wendy e lisa sembra non abbiano contribuito al brano ma la loro influenza è abbastanza evidente.
chiude questo scrigno meraviglioso ‘father’s song’, ovvero la versione pianistica della melodia centrale di ‘computer blue’ (che nel film si vede suonare al padre di the kid). accreditata a john l. nelson, padre di prince, non si sa bene quale sia stato il suo reale contributo compositivo, forse prince gliel’ha sentita suonare quand’era piccolo, vallo a sapere. di certo è una delle melodie più belle di ‘purple rain’ e questa versione ne enfatizza la poeticità.

infine due considerazioni sul dvd. numero uno: dovete vederlo. numero due: non l’avete ancora visto?
i concerti di questo periodo sono un circo, la band è compattissima, dal febbraio ’85 si aggiunge eric leeds al sax, la scaletta è perfetta e prince è al top della forma, da qui all’89 nessuno può tenergli testa. l’aspetto sessuale della sua musica è ovviamente amplificato a dismisura (un assolo di chitarra finisce con lui che fa su e giù sul manico della fender fino a farla schizzare dalla paletta, non so se mi spiego) ma ci sono già i germi della spiritualità che esploderà pochi anni dopo, con una parte centrale in cui prince parla con dio e la catarsi finale di ‘purple rain’. per il resto ci sono le danze folli (‘let’s go crazy’-‘delirious’-‘1999’ in apertura), le atmosfere romantiche (‘do me, baby’, ‘how come you don’t call me anymore’, ‘the beautiful ones’ con un finale strappafaccia (o stracciamutande se preferite) e ‘international lover’), ci sono brani non pubblicati come ‘irresistible bitch’ o ‘possessed’ e ci sono tutti gli ovvi singoloni, molto molto molto difficile chiedere di più.


se considerate che tutto questo pacchetto ve lo portate a casa per una ventina di euro, che il booklet è corposo e contiene un track-by-track del disco scritto dai membri dei revolution oltre a foto e un artwork rielaborato, vista la quantità di materiale irrinunciabile il fatto che il remaster del disco possiate buttarlo via diventa piuttosto irrilevante.

lunedì 16 aprile 2018

prince and the revolution, 'parade'


veniamo quindi all’ultima uscita targata prince and the revolution, la colonna sonora del secondo lungometraggio del folletto di minneapolis, ‘under the cherry moon’.
‘parade’ è l’apice di un percorso iniziato con ‘1999’, è il momento in cui le influenze portate soprattutto da wendy e lisa, jazz e classica su tutte, convergono a creare un ibrido di musica assolutamente moderna che però mantiene solide le sue radici nella tradizione. quale tradizione? dipende, come vedremo. intanto bisogna anche notare il cambio netto di estetica: scompare completamente il viola, così come tutti i colori ad eccezione del bianco e nero. la patina vintage è fortemente voluta da prince e si adatta splendidamente alle canzoni, mentre risulta piuttosto ridicola nel film. già, perché ancora una volta ci troviamo di fronte ad una colonna sonora, e questa volta ancora più che per ‘purple rain’ sarebbe il caso di sorvolare sulla controparte cinematografica. invece no, certe cose vanno dette: ‘under the cherry moon’ è una cagata pazzesca. un film in bianco e nero, girato e ambientato a nizza, dove prince interpreta un artista squattrinato (credibile quanto una moneta da 4,23 euro), seguito dal suo fido compare jerome benton dei the time. si innamora di un’artistocratica, blablablablabla alla fine muore in maniera tragicomica. davvero, lasciamo perdere, pensiamo invece al disco. 
(siccome questo è molto probabilmente il mio disco preferito di prince, ogni tanto potrei perdere un po’ il controllo, a partire dal fatto che farò una cosa che in genere evito accuratamente: il temutissimo e nerdissimo track-by-track.)

‘christopher tracy’s parade’ apre le danze, ed è il caso di dire che lo fa col botto. l’evento più importante da registrare è l’inizio della collaborazione con clare fischer (ed il figlio brent), un artista che herbie hancock ha definito come una grossa influenza sul suo pensiero armonico, non so se rendo l’idea. multistrumentista ed arrangiatore per i hi-lo’s, michael jackson, paula abdul, chaka khan, branford marsalis e molti altri, fischer ha contribuito in maniera massiccia alla riuscita di alcuni dei brani più belli della produzione di prince, con un apice inarrivabile come ‘crystal ball’. in ‘parade’ fischer porta l’aria europea, molto cercata nelle atmosfere e negli arrangiamenti (e anche nel film, ma lasciamo stare); l’orchestra si rivela strumento versatile nelle sue mani, riuscendo, a seconda del brano, ad assecondare o contrastare le idee di prince. in ‘christopher tracy’s parade’ l’impatto non è morbido: la fusione delle due parti genera un muro di suono che non può non riportare la mente al ‘sgt. pepper’, una sbronza di suoni e colori, fiati, archi, cori e quant’altro che lascia storditi. inizia qui anche un'altra collaborazione importante, quella con Eric Leeds, sassofonista che ricoprirà un ruolo fondamentale nel periodo subito successivo a ‘parade’ (dai dischi pubblicati come prince al grandioso esperimento madhouse, passando per le jam post-concerto al trojan horse o allo small club, leeds sarà una forza propulsiva per la musica di prince).
interessante è il processo di registrazione dei primi 4 brani del disco: prince diede ordine di far partire il nastro, si sedette alla batteria e suonò queste 4 canzoni di fila senza mai fermarsi, buona la prima, poi nel giro di qualche ora aggiunse tutti gli altri strumenti e voci.
se questo è l’inizio, il resto come può proseguire? svuotando tutto, asciugando ogni colore e distillandosi in ‘new position’, funk secchissimo (come james brown amava) e storto dall’arrangiamento asciutto ma ricco di cori, molto vicino alle sonorità di ‘kiss’, a parte per un basso irresistibile che guida tutto il brano. nessuna pausa tra i primi due brani e nessuna prima di ‘i wonder u’, vortice sonoro che vede la voce di wendy melvoin protagonista, circondata da effetti sonori, una chitarra aliena e le orchestrazioni di fischer (soprattutto flauti) sparse negli spazi. ancora non ci viene dato il tempo di respirare, dopo solo 1:40 si passa a ‘under the cherry moon’, ballata pianistica in cui c’è molto da notare. sono i dettagli a rendere incredibile ‘parade’ e questo brano lo dimostra: il pianismo jazz è sottinteso all’accompagnamento, la tradizione europea arriva con gli archi che avvolgono le melodie, il vento mediterraneo soffia con dei mandolini nascosti tra gli strumenti; si nota l’eterna alternanza tra il prince sciupafemmine (‘i guess we’ll make love under the cherry moon’) e quello macho egocentrico (‘maybe i’ll die young like heroes die’, come poi fa succedere nel film. ma lasciamo perdere.), c’è il contrasto tra l’artista rinchiuso in studio in solitudine (suona tutti gli strumenti non orchestrali) e quello aperto alle collaborazioni ed influenze (difficilmente sarebbe arrivato a scrivere un pezzo così senza wendy, lisa e fink). una canzone importante, oltre che bellissima, posta in chiusura di un medley iniziale che non ha mezze misure e lascia senza respiro.
ci si sente un po’ più a casa con ‘girls and boys’, uno dei brani più longevi nelle scalette dei concerti, un funk venato di paranoia che gioca con gli incastri degli strumenti un po’ come faceva ‘when doves cry’. è anche il primo brano in scaletta a vedere la partecipazione di tutti i membri dei revolution e suona infatti molto organico e compatto (wendy melvoin racconta che al tempo, durante le prove, erano soliti improvvisare anche per 4 o 5 ore di fila, senza pause, prendendo un groove e usandolo come un mantra. sono evidentemente le situazioni da cui nascono brani come questo, ‘mountains’, ‘america’ o ‘billy’). nonostante si torni su sentieri più familiari, resta un senso di cambiamento forte: anche solo il sax di leeds è qualcosa di nuovo per uno che faceva bandiera del suo sostituire i fiati con i synth, inoltre le melodie del brano sono tutte sbilenche, con momenti di dissonanze inaspettate. il discorso è lo stesso ma il suono ancora più straniante in ‘life can be so nice’, un pezzo che stordisce con armonie forzate e di grande impatto, oltre a un treno ritmico inarrestabile che ha apice in un break guidato dalla doppia cassa (tutto suonato in solitaria da prince, of course. c’è sheila e ma suona solo il cowbell) su cui wendy e lisa incrociano le voci con quella di prince in cori sincopati in rapida sequenza. non proprio roba di tutti i giorni, ecco. il primo lato del disco si chiude con ‘venus de milo’, un delicato strumentale che continua il discorso di ‘under the cherry moon’ in punta di piedi, un’oasi estremamente piacevole in mezzo al marasma sonico dell’album.
dopo neanche due minuti ‘mountains’ deflagra dalle casse e ci si trova davanti uno dei momenti più alti del disco e, conseguentemente, della carriera di prince. il tiro è quello classico del suono di minneapolis, l’arrangiamento è ricco e lussurioso (matthew 'atlanta bliss' blistan si aggiunge con la sua tromba al sax di leeds), l’orchestra sottolinea ed enfatizza l’epicità della canzone, soprattutto nello special strumentale fatto di obbligati e sincopi. le melodie portanti sono semplicemente bellissime ed il tutto si somma in una canzone intensissima. momento di relax con ‘do u lie’, divertissement jazzato d’epoca, leggero e riuscito, ottimo per introdurre un’ultima parte di disco che non fa prigionieri.
su ‘kiss’ o si scrive un libro intero o si cerca di stare in un paio di righe. proverò la seconda opzione, fallendo. cazzate a parte, cosa volete che vi dica che non sappiate già? magari non sapete che era stata scritta (6 giorni dopo l’uscita di ‘around the world in a day’) per i mazarati, gruppo di brown mark, come pezzo blues; i mazarati l’hanno virata funk, prince l’ha sentita, se l’è ripresa, ha tenuto batteria e cori del gruppo ed ha aggiunto tutto il resto, lasciando intenzionalmente fuori il basso. mitologia a parte, sintetizza alla perfezione la parte funk di ‘parade’: suono secchissimo, arrangiamenti asciutti e percussivi, cori profondi che punteggiano la voce principale, un sunto dell’anima più zozza del disco.
‘anotherloverholenyohead’ chiude invece il discorso di ‘life can be so nice’ e ‘mountains’: anima rock, tiro funky e una profondità di suono che contrasta con la frontalità del pezzo precedente. ha un ritornello da stadio che l’ha riportata dal vivo molto spesso, con grande felicità dei fan. in mezzo al pezzo ricompare l’orchestra, portando la consueta punta di psichedelia con giochi melodico-armonici che spostano il brano verso il finale, dove c’è un continuo aprirsi in momenti quasi astratti e riprendere il tiro solido del brano.
forse avrete intuito che a me prince piace e mi piace parlare della sua musica. molto. vi dico la verità, di fronte a ‘sometimes it snows in april’ mi trovo regolarmente senza parole. non le trovo, non credo che esistano, almeno non quelle che vorrei. è una ballata acustica, wendy alla chitarra e cori, lisa al piano e cori e prince alla voce, registrata il 21 aprile del 1985 ai sunset studios di hollywood; esiste un arrangiamento orchestrale di fischer ma prince ha preferito escluderlo da questa versione. è comparsa più o meno regolarmente in quasi tutti i tour seguenti e ne esistono due versioni live ufficiali del 2002. vi ho appena detto aria fritta. perché? perché il momento in cui la voce di prince sussurra “maybe one day i’ll see my tracy again” e tutti gli strumenti restano sospesi in un vuoto che è la risposta a quella speranza… boh, non lo so come spiegarvelo. ditemelo voi perché io non lo so.

e così ho finito

di parlarvi dei pezzi del disco, poi c’è tutto il resto: b-side, pezzi scartati e tour (risata diabolica).
partiamo dalle b-side, che quantomeno sono state pubblicate ufficialmente.
‘love or $’, b-side di ‘kiss', è il primo pezzo pubblicato da prince in cui c’è la partecipazione di eric leeds. è un funk asciutto e secco, perfettamente in linea col suono di ‘parade’, ma presenta anche una pienezza timbrica che guarda già a ‘sign o the times’; non si sa molto di certo su chi suoni nella canzone, di sicuro wendy, lisa e leeds.
‘alexa de paris’ invece è stata pubblicata come b-side di ‘mountains’ (e si sente nel film. ma lasciamo perdere.) ed è un pezzo strumentale curioso, a partire dalla lineup: prince suona tutto tranne la batteria che viene suonata da sheila e invece che dal fido bobby z; oltre ai due c’è “solo” l’orchestra arrangiata da clare fischer. è una canzone che mantiene tutto il profilo melodico di parade ma per struttura e pomposità se ne allontana decisamente, ricordando più cose future come ‘3 chains o’ gold’ nella sua magniloquenza quasi progressive. di certo è un piacere sentire quella chitarra svolazzare libera per gli ampi spazi di un brano tutt’altro che inferiore, solo piuttosto diverso.
curiosamente questi due brani sono gli unici b-side del periodo 82-86 a non essere stati inclusi nel terzo cd di ‘the hits/the b-sides’, non ci è dato sapere il perché.
venendo poi ai pezzi scartati, c’è da restare a bocca aperta davanti a ‘all my dreams’: un tripudio di arrangiamenti bizzarri, cori, tasiere, voci filtrate, un break jazzato in mezzo al brano e un finale epico con tanto di coro in stile gospel (non sono pervenuti commenti di prince riguardo alla canzone ma se avesse osato ancora una volta dire che non ci sono i beatles di mezzo ci sarebbe da ridere sul serio).
‘old friends 4 sale’ è una ballad blueseggiante sleazy e torbida, un po’ come sarà ‘slow love’ su ‘sign o the times’, puro feeling (e la mancata occasione di un assolo di chitarra strappamutande, sigh). ‘others here with us’ invece è uno dei pezzi più strani mai registrati da prince, con un testo che parla di suicidi, bambini morti e fantasmi e un campionario di suoni raccapriccianti presi direttamente dal nuovo synth fairlight con cui stava giocando in quel periodo, una forma di impressionismo sonoro che a tratti sa più di esperimento che altro.

il tour di ‘parade’ avrebbe dovuto compensare anche al mancato tour di ‘around the world in a day’ (mai programmato, mai nemmeno ipotizzato, prince si è gettato direttamente nel progetto ‘parade’/‘under the cherry moon’). nelle scalette in realtà, a parte la posizione d’onore di apertura per la title-track, comparivano solo i due singoli ‘raspberry beret’ e ‘pop life’, la prima con un’introduzione di obbligati infernali per tutta la band, suonata poi molto simile alla versione originale; la seconda invece, dopo un’introduzione di synth ambientali, veniva suonata decisamente più veloce della versione pubblicata, arricchita da fraseggi di flauto ma non al livello dell’originale.
il resto della scaletta escludeva tutto ‘purple rain’ ad eccezione della title-track in chiusura di concerto e di ‘when doves cry’ (resa incredibilmente con l’ingresso dell’intera band a metà pezzo) e presentava quasi tutto ‘parade’, in genere restavano fuori solo ‘do u lie’ e ‘sometimes it snows in april’. questa scelta era dettata dal fatto che gli show erano di un’energia incontenibile, non c’era un momento di pausa e la band era compattissima nel seguire il direttore. non potendo contare sulle orchestrazioni del disco, gli arrangiamenti dei pezzi si basano molto di più sull’interazione tra gli strumenti e sulle combinazioni tra essi, con la sezione ritmica a fungere da collante. ’new position’ si arricchisce dei fiati che le donano una profondità maggiore, ‘i wonder u’ trova una nuova veste con linee di fiati inedite ed un tiro più dance; ‘anotherloverholenyohead’ esagera ed accresce il livello di energia dell’originale, grazie anche ai continui “call out” di prince; ‘girl and boys’ fa il suo ingresso trionfale nelle scalette in versione simile a quella pubblicata ma graziata dall’incredibile stato della band che la rende vibrante, esattamente come ‘life can be so nice’, che verrà però ripescata molto meno spesso in futuro.
si trova qualche bootleg in qualità abbastanza buona che documenta alcune delle date del tour, il quale curiosamente non ha neanche sfiorato le americhe, venendo unicamente in europa con un’appendice giapponese di 4 date. più difficile trovare video in buona qualità ma qualcosa c’è, frugate negli orrendi meandri dell’internet.

ho quasi finito davvero. poche righe per sottolineare come il periodo di ‘parade’ abbia rappresentato un vertice nella produzione di prince, se non altro per un disco che fotografa il momento di massima intesa e cooperazione con i revolution, sciolti poco dopo la fine del tour mentre lavoravano a nuovi progetti rimasti inediti come ‘roadhouse garden’ o ‘dream factory’.

i brani del disco sono la fusione perfetta delle varie anime di prince, quella funk lercia, quella romantica, quella macho e quella artistica/geniale. è soprattutto una prova di composizione altissima, in quanto riesce a costruire un telaio solido su cui utilizzare una quantità di materiali diversi che spiazza, sorprende e lascia appagati. è il punto preciso di equilibrio di un suono ibrido e instabile che per 40 minuti non si dà pace, un miracolo di arrangiamento creativo e lo sfavillante inizio della collaborazione con clare fischer. un’opera d'arte per cui bisogna sentitamente ringraziare il suo creatore, per quanto piccolo e testardo fosse. 



(non ci si deve sentire invece in obbligo di ringraziarlo per il film. forse è meglio lasciar perdere.)

sabato 14 aprile 2018

prince and the revolution, 'around the world in a day'


disco bistrattato, sottovalutato e perennemente all’omba dei due colossi che lo circondano, chiamati ‘purple rain’ e ‘parade’, ‘around the world in a day’ è nato sfigato, pubblicato troppo presto quando ancora la scia del successo precedente non si era esaurita e privato di tour promozionale. eppure contiene dei pezzi che sono rimasti in scaletta fino alla morte di prince, su tutti ‘raspberry beret’, oltre a momenti di genio che brillano tanto quanto i loro illustri vicini di discografia.

ancora una volta il grosso del materiale è stato scritto appositamente per l’album, con le sole ‘raspberry beret’ e ‘pop life’ a provenire l’una dall’82 e l’altra dal febbraio ’84. è il secondo dei tre dischi accreditati a prince and the revolution e ancora una volta mostra l’influenza crescente che i musicisti da lui scelti stavano avendo sulle sue composizioni. 'around the world in a day’ è il disco in cui viene più a galla quella patina psichedelica che spesso ricopre i brani di prince, c’è un’atmosfera sixties e vagamente beatlesiana, per quanto l’artista abbia sempre negato questa influenza diretta, citando invece stevie wonder, joni mitchell e il miles davis degli anni '80 come artisti che hanno voluto evolvere il proprio suono.

di sicuro i suoni che aprono la title-track all’inizio del disco riportano la mente a quel mondo orientale a cui la psichedelia di fine ’60 era così legata. il brano ha una storia curiosa: è stato scritto da david coleman in una sessione di due giorni nel giugno ‘84 ai sunset studios di hollywood regalatagli proprio da prince per il suo compleanno; quando prince sentì il risultato di quella sessione volle la canzone per il suo disco, registrò di nuovo tutta la base, lasciò che coleman si occupasse di archi e percussioni etniche e ne fece un’apertura di disco magistrale, l’unico brano della produzione princeiana a condividere un credito con coleman. esiste anche un'altra versione di questo pezzo, eseguita unicamente da prince, che semplicemente introducendo un rullante su tutti i backbeat e semplificando di pochissimo l'arrangiamento risulta molto più lineare e pop, dimostrando la capacità del nano di gestire il felling dei pezzi in modo impressionante tramite i minimi particolari.
la qualità media del disco è leggermente inferiore al solito, con un paio di brani come ‘tamborine’ e ‘the ladder’ che si accontentano di essere dei giochini divertenti (soprattutto ‘tamborine’ con le sue leggerissime allusioni sessuali) e poco più. quando invece il livello si alza, c’è da stare attenti. ‘condition of the heart’, ad esempio, è un capolavoro di creatività straripante ed una prova vocale inarrivabile; parte da un’introduzione rubata in cui piano e sintetizzatori interagiscono in una maniera che sta tra il classico ed il jazz (l’influenza di wendy e lisa, sempre più marcata), stupendo di continuo l’ascoltatore con effetti e suoni inaspettati prima di stemperarsi nella morbida strofa in maggiore, nella quale le capacità vocali di prince, la sua estensione e la sua padronanza timbrica hanno modo di brillare come poche altre volte. c’è una tensione spirituale sottesa al brano che viene enfatizzata dalle armonie vocali di rimando spiritual/gospel. anni più tardi ‘still would stand all time’ cercherà di replicare questo successo con risultati tra l’indifferente ed il ridicolo.
un paio di brani più avanti in scaletta ci si trova di fronte ad ‘america’, uno dei due pezzi più rock del disco, una scia del suono di ‘purple rain’, qui editata a 3 minuti e 40 dai 21 minuti della versione jam da cui è estratta (contenuta nella versione singolo 12 pollici del brano, ovviamente consigliata. ma che ve lo dico a fare.). è un rock da stadio esplosivo e corale ed è stato l’ultimo singolo estratto dal disco. sul beat ossessivo prince canta in maniera sgraziata e schitarra felice, mentre i revolution tessono il fitto e colorato arrangiamento dai toni nettamente funk. nel suo essere molto diretta è quasi l’opposto di ‘condition of the heart’, eppure i due brani riescono a convivere armoniosamente nel disco.
‘pop life’ e ‘paisley park' sono i brani più “semplici” e pop in senso classico,  la prima trainata dal basso in slap e dagli accordi del pianoforte, ariosa e aperta e tremendamente catchy, la seconda più fantasiosa nell’arrangiamento e saltellante sul suo 6/8, due piccoli manuali su come scrivere un pezzo pop perfetto.
menzione poi per il finale del disco, ‘temptation’, un hard-blues chitarristico che travolge con un riff che ricorda quasi i king crimson di ’21th century schizoid man’ nel suo fondere chitarra e sax. l’interpretazione di prince è aggressiva e giunge a vette di violenza vicine a quelle di ‘darling nikki’, con strilli disumani e un suono di chitarra lercio e strabordante. nel finale invece torna la psichedelia, una coda di urletti, versi di sax e sprazzi di suono che rimette il brano in linea col resto del disco.

se già ‘raspberry beret’ è una canzone incredibile, a mio parere va ancora meglio con la sua b-side, la strepitosa ‘she’s always in my hair’ che, per quanto mi riguarda, avrebbe tranquillamente potuto sostituire ‘tamborine’ o ‘the ladder’ innalzando ulteriormente il valore del disco. è un brano pop-rock, ancora una volta dalle tinte psichedeliche, che risale al dicembre dell’83, in piena composizione di ‘purple rain’. si fregia di un paio di trucchetti armonici molto efficaci che creano l’illusione di modulazioni armoniche, portando l’orecchio a spasso mentre la melodia lo culla. forse meno riuscita ma ancora più psichedelica risulta ‘girl’, b-side di ‘america’ composta nell’82 che qui si spinge un pochino oltre rispetto all’album: il beat è una cassa in 4 con pochi orpelli sul backbeat, il brano è retto dalla voce, immersa in armonie oblique (con la collaborazione di vanity), e dai synth acidi che lampeggiano. 
alto anche il livello di ‘hello’, b-side di ‘pop life’ con jill jones ai cori. la canzone contiene riferimenti a fatti reali: prince fu contattato per partecipare al progetto ‘we are the world’; compose ‘4 the tears in your eyes’ e la donò ma si rifiutò di cantare sull’omonima canzone e per questo venne criticato. ‘hello’ è la risposta, molto intelligente, a queste critiche, ed è anche un pezzo micidiale, dal basso inarrestabile e gli arrangiamenti fantsiosi, completamente suonato dal solo prince.


sono tanti e vari i motivi che resero 'around the world in a day’ un mezzo flop e non tutti sono ancora accettabili oggi come giustificazioni per non rendere giustizia a questo disco. è possibile che parte dell'intento del disco fosse semplicemente di sperimentare coi suoni per il gusto di farlo, non sarà al livello di ‘purple rain’ o ‘parade’ ma mostra un lato del suono di prince che raramente è stato approfondito, quella psichedelia che di solito profuma soltanto alcune sue canzoni e qui invece viene prepotentemente in primo piano per la prima ed ultima volta, lasciarsi sfuggire questa sfumature sarebbe un vero peccato.

mercoledì 11 aprile 2018

prince and the revolution, 'purple rain'


ed eccoci qui, il momento in cui prince diventa ufficialmente un fenomeno mondiale, l’esplosione su grande scala. il successo di ‘purple rain’ è tale che la maggiorparte delle persone conoscono solo questo disco di prince o addirittura solo la title-track. com’è stato possibile questo successo? i fattori in gioco sono tanti, sedetevi comodi e parliamone.

‘1999’ aveva avuto un successo enorme e aveva presentato il personaggio che prince avrebbe interpretato per il resto degli anni ’80, un’estetica fatta di glitter, pose provocatorie, un’oscillazione costante tra sciupafemmine efebico e chitarrista rock macho, il tutto immerso in un viola profondo, a metà tra il vellutato ed il minaccioso. 
musicalmente poi aveva creato un mondo, solidificando il suono di minneapolis ed introducendo già una parte rock bianca che ora prenderà il sopravvento.
la musica pubblicata su ‘purple rain’ è stata tutta scritta tra l'83 e l’84, a parte ‘baby i’m a star’, una cui versione demo viene fatta risalire a fine ’81. questo dimostra, ancora una volta, una chiarezza di intenti invidiabile da parte di prince: il cambio di suono rispetto a ‘1999’ non è indifferente, ci si aspetterebbe un disco di transizione per arrivare ad una forma compiuta mentre prince, grazie alla qualità assoluta delle composizioni, riesce a centrare l’obiettivo al primo colpo.
come vedremo più avanti, la quantità di materiale composto in questo periodo è enorme (duane tudahl ci ha scritto un intero libro, “prince and the purple rain era studio sessions: 1983 and 1984”), tanto che molte di queste canzoni finiranno in dischi successivi (‘raspberry beret’ e ‘pop life’ su ‘around the world in a day’ ad esempio) o come b-side di singoli (’17 days’, ‘erotic city’, ‘god’, ‘another lonely christmas’ prima, poi la stupenda ‘she’s always in my hair’ e ‘girl’) oppure dimenticate nei meandri della sconfinata vault di paisley park. 

ma veniamo al disco in sé finalmente. no, non è vero, manca ancora un po’. questo perché  ricordiamoci che il disco non è altro che la colonna sonora del film, almeno nella testa di prince; poi che il film sia un’opera assolutamente trascurabile e il disco un capolavoro è un altro discorso, il nano comunque ha investito una quantità importante di tempo e soldi nel progetto cinematografico ed ha anche avuto un buon successo nelle sale. è il film migliore di sempre? beh sì, certo, è un film con prince, ma a parte questo particolare, no, non lo è neanche alla lontana. è un film che parla di conflitti su vari livelli senza approfondirne veramente nessuno, resta un po’ per aria e funziona grazie all’immagine di prince e dei revolution, altrimenti nessuno se lo sarebbe mai filato.
ecco, i revolution. finalmente hanno modo di farsi sentire in buona parte dei nuovi pezzi e questa volta non solo come coristi. i tre pezzi finali dell’album, ‘i would die 4 u’, ‘baby i’m a star’ e ‘purple rain’, giungono direttamente da un live del 3 agosto 1983 al first avenue di minneapolis e includono quindi la lineup completa: bobby z alla batteria, brown mark al basso, wendy melvoin alla chitarra ritmica, lisa coleman e matt fink alle tastiere. questa è la band che accompagnerà prince per altri due dischi (editi) dopo ‘purple rain’ e per i relativi tour, prima che venga sciolta dallo stesso prince prima della pubblicazione di ‘sign o the times’.

l’organo che apre ‘let’s go crazy’ ha un valore religioso per un fan di prince, è il segnale dell’inizio di una festa che non finisce mai, è la campanella di fine lezioni, è il suono del treno della metro quando rientri il venerdì sera. il tono ieratico con cui poi veniamo invitati a perdere ogni controllo non fa che accentuare questo aspetto religioso, discendente in qualche modo di quelle note iniziali di ‘a love supreme’ di coltrane. nello svolgersi del pezzo si viene investiti da un’onda di suono a cui è impossibile resistere, fino a quel momento in cui il fiato si ferma e si rimane sospesi con un feedback di chitarra lancinante, prima del pirotecnico finale. c’è ancora quel tono da rituale post-apocalittico di ‘1999’ ma questa volta dopo la linn drum non entra un esercito di synth, bensì una sezione ritmica rock che sposta completamente il baricentro del suono. il funk è ancora presente ma ‘purple rain’ è uno dei dischi più bianchi di prince e sicuramente il suo disco più rock degli anni ’80: le schitarrate e doppia cassa in ‘darling nikki’ sono difficili da ricondurre alla tradizione afroamericana, così come le trame pop di ’take me with u’ o lo svolgersi di ‘computer blue’ (soprattutto nella sua versione integrale, ci arriviamo poi) (ve l’avevo detto di mettervi comodi, ne ho ancora per un bel po'). 
questo è poi un disco che crea un precedente importantissimo: uno dei suoi singoli di maggior successo è ‘when doves cry’, ovvero il primo pezzo funk senza basso di prince, due anni prima di ‘kiss’. la canzone non solo sta in piedi comunque ma si eleva fino ad essere uno dei brani migliori mai scritti dal nano grazie ad un riff di tastiera memorabile e ad un’interpretazione drammatica e profonda della voce.
come dicevo prima, le basi per il trittico finale sono state registrate dal vivo al first avenue di minneapolis; su queste poi sono state operate sovraincisioni varie per arrivare al risultato finale ma la carica dell’esecuzione live si fa sentire sia in ‘i would die 4 u’, gioiello melodico ammantato di una vaga psichedelia che tornerà nel disco successivo, che in ‘baby i’m a star’, pezzo tirato e festaiolo che fa da perfetto perambolo al finale dell’album. e che vi devo dire del finale dell’album? è il pezzo più famoso di prince, è diventato il suo simbolo, è la canzone che tutti volevano sentire ai suoi concerti. è una ballata lenta e molto aperta, con ampi spazi lasciati alle code dei suoi, ai riverberi, allo spazio tra le note; conta su una delle migliori performance vocali che prince abbia mai registrato, nonché su un assolo di chitarra che mostra tutto il suo feeling sullo strumento. è graziata da un trio d’archi arrangiato da david coleman, fratello di lisa che si occupa di tutti gli archi nel disco (un fatto non da poco visto che di lì a breve da ‘parade’ inizierà la collaborazione con il maestro clare fischer). una canzone perfetta, inattaccabile da ogni punto di vista, che rappresenta il culmine emotivo di un album (e film) pseudo-biografico in cui particolari reali della vita di prince si intersecano a storie e leggende che lo accompagneranno per tutta la carriera (il rapporto con suo padre era buono, tanto che a volte gli regalava crediti per le canzoni).

se il materiale pubblicato sul disco è praticamente perfetto, quello rimasto fuori non è tanto da meno, anzi. partiamo da ‘computer blue’, 3:59 sul disco, 12:19 nella sua versione integrale, la cosiddetta ‘hallway speech version’, recentemente pubblicata sulla ristampa di ‘purple rain’ (osceno e criminale il remaster ma il materiale bonus è assolutamente da avere, incluso il dvd con l’intero concerto al carrier dome di syracuse dell’85). in quasi un quarto d’ora di musica, prince riesce a cambiare continuamente feeling, passando dalla parte cantata a una lunghissima sequenza strumentale in cui, su un beat costante, vengono continuamente introdotti temi e suoni nuovi, prima di deragliare in una coda rumoristica. la sintesi dell’album è comunque un’opera incredibile ma questa versione mostra ancora una volta la capacità di prince di operare su lunghi brani.
ci sono poi le b-sides: ’17 days’, ‘erotic city’, ‘god’ e ‘another lonely christmas’. se ‘christmas’ può essere trascurata (un pezzo rock da stadio non brutto ma neanche eccelso), le altre tre canzoni sono invece assolutamente a livello dei brani dell’album. ‘god’ esiste in due versioni, una è una ballata di 4 minuti per piano, voce e synth, molto sentita e dagli acuti impressionanti, l’altra è uno strumentale di otto minuti che si inerpica addirittura per territori progressive, trainato dalla chitarra selvaggia e avvolto in pad sintetici. dal vivo poi era un’altra cosa ancora, un dialogo parodistico tra prince e la voce di dio che era più scena che musica.
in ’17 days’ si sente pesantemente la mano dei revolution, soprattutto di wendy e lisa: il riff portante di tastiera è loro e arriva da una jam in studio. il pezzo ha una melodicità tutta sua, con ancora una volta quel tocco psichedelico e sixties che si sposa alla perfezione con il lato più naive di prince. ‘erotic city’ invece sembra provenire già da ‘lovesexy’ (non a caso aprirà i concerti di quel tour nell’88/89), un pezzo dance scarnificato che inizia ad esplorare il mondo dell’effettistica vocale accelerando il nastro della voce principale, un espediente che in futuro prince utilizzerà pesantemente. 
nel frattempo vengono composti brani anche per i ‘protetti’, ad esempio i the time e sheila e, futura batterista/percussionista/corista della band di prince che in questo periodo esordisce sul mercato con ‘the glamorous life’, disco trainato dall’omonimo singolo di grande successo… scritto da prince. ci sono poi le vanity 6, per le quali in questo periodo viene scritta ‘g-spot’, divertente pezzo danzereccio di gran lunga più interessante nella versione cantata da prince. viene anche scritta ‘manic monday’, regalata poi alle bangles e pubblicata nell’86 su ‘different light’.
diverso il destino invece di ‘a place in heaven’, delicata ballata in falsetto reperibile in due versioni, una cantata da prince e registrata in questo periodo, l’altra con lisa alla voce principale, ipotizzata nella scaletta di ‘dream factory’, album poi abortito di cui varie canzoni finiranno in ‘sign o the times’.

chiudiamo questa rassegna degli inediti con due dei brani più sperimentali mai registrati da prince, ovvero ‘cloreen bacon skin’ e ‘billy’ (o ‘billy’s sunglasses’, dagli occhiali che porta il personaggio di billy sparks nel film ‘purple rain’). la prima verrà pubblicata solo nel ’98 su ‘crystal ball’, è un duetto con prince al basso e voce e morris day alla batteria, un quarto d’ora di improvvisazione con la voce filtrata di prince che racconta di una sua fantomatica prima moglie molto grassa chiamata, appunto, cloreen. l’esperimento non è un caso isolato, troviamo un suono molto simile in bob george sul ‘black album’, ad esempio, altro delirio su base basso/batteria funk e zozza. ‘billy’ invece è un’esperienza. è un’improvvisazione di gruppo durante una prova nell’83 in cui prince suona la chitarra in un modo estremamente rock, come gli si sentirà fare in abbondanza più avanti nella carriera. il beat incessante e le tastiere di fink sono una cornice perfetta per questo sproloquio vocal/hendrixiano che dura ben 51 minuti, un viaggio non per tutti ma sicuramente consigliato a chi vuole farsi un’idea della versatilità di prince.


bene, è stata lunga ma siamo giunti alla conclusione. come avrete capito, l’album ‘purple rain’ è solo la punta di un iceberg chiamato prince. è la summa della produzione di quel periodo e ne è sicuramente una rappresentazione fedele, per quanto sintetica. è la fotografia di un momento in cui la creatività di prince cresceva di pari passo con le sue capacità e conoscenze, aiutato anche dalla musica che wendy e lisa gli facevano ascoltare (sorpattutto jazz e classica, influenze che esploderanno su ‘parade’). è uno dei momenti di sinergia migliore insieme a una band che, per quanto fondamentale nell’evoluzione dell’artista americano, durerà un attimo e scomparirà nel 1986, solo due anni dopo la pubblicazione di ‘purple rain’. è la dimostrazione che anche negli anni ’80, con i suoni degli anni ’80, si poteva fare grande musica da tramandare alle generazioni future e da conservare nella memoria collettiva.

ps: alcuni dei brani che ho citato nella seconda parte dell'articolo sono molto difficili da reperire. il mio consiglio è di cercare in giro per internet quello scrigno meraviglioso chiamato 'work it 2.0', una raccolta di 34 (sì, 34) cd di materiale inedito che è trapelato negli anni dalla vault, brani inediti, demo, versioni alternative, etc., tutto diviso cronologicamente. se foste interessati contattatemi in privato.