sabato 8 dicembre 2018

tropical fuck storm, 'a laughing death in meatspace'


esordio strepitoso dei tropical fuck storm con questo ‘a laughing death in meatspace’, un disco che si appiccica addosso e rappresenta molto bene alcuni sentimenti dei nostri giorni.
il quartetto australiano è capitanato da gareth liddiard, già nei drones, a chitarre e voce, fiona kitschin (anche lei nei drones) al basso e cori, lauren hammel (high tension) alla batteria e cori ed erica dunn (harmony) alla chitarra, tastiere e cori.

la qualità principale del suono del gruppo è un flow malaticcio e caracollante, ritmiche martellanti spinte da un basso lercio e distorto sotto alle chitarre che passano da linee blues mutate a sfoghi noise esplosivi e urticanti mentre le tastiere si inseriscono di nascosto con linee di archi sintetici e suoni sbiellati.
non so se sia semplicemente l’accento australiano di gareth liddiard a ricordarmi nick cave, non credo proprio: l’interpretazione di ‘soft power’ è abbastanza esplicita nel citare i fiumi di parole del cantastorie australiano con la cadenza delle parole, con lo strascinare le lettere e dare alla voce un tono grottesco, inquietante ma anche sardonico, in più momenti sembra di assistere ad un’opera di aggiornamento del suono dei birthday party. non bisogna però fermarsi a questo, perché il suono dei tropical fuck storm è complesso e con molte sfaccettature: ci sono botta e risposta vocali che ricordano tanto i talking heads quanto i più recenti goat (soprattutto per i cori femminili), sprazzi di blues malaticcio e scomposto con dissonanze che passano anche dai sonic youth ed inaspettate oasi melodiche, tutto fuso in un suono piuttosto lo-fi, originale e caratteristico.

un disco velenoso che non ha mai bisogno di essere ‘hardcore’ in superficie (ma essendolo nel profondo), melodico in un modo tutto suo, sbilenco e graziato da un’urgenza espressiva che lo percorre come elettricità per tutta la sua durata. 
il titolo dell’album si riferisce a due cose: ‘meatspace’ è come gli ingegneri della silicon valley chiamano il mondo reale, opposto a quello virtuale, mentre la "morte per risata” si riferisce a un’usanza indigena della papua nuova guinea che vedeva uomini, donne e bambini cibarsi delle carni e del cervello dei loro morti, scatenando così il morbo di creutzfeldt-jakob che divora la materia cerebrale e porta molti di loro a perdere del tutto il controllo e morire, spesso proprio ridendo. 
queste storie fanno capire l’intento del disco, storie come ‘the future of history’, basata sulla partita a scacchi tra gary kasparov e il supercomputer deep blue che non solo si interroga sull’eterno dilemma delle intelligenze artificiali ma lo fa da un punto di vista post-tutto, non è l’angoscia a trascinare le parole ma il sarcasmo più amaro (“staked his prowess on his claim to life and he wasn’t about to lose it to a traffic light” o “the turkeys vote for christmas/gaslighted by the telephone that put steve jobs in business”), come testimoniano alcune interviste a liddiard (https://www.punknews.org/article/68149/interviews-gareth-liddiard-of-tropical-fuck-storm); c’è un’amarezza desolante nelle sue parole che sicuramente molti di noi condividono.

i testi sono tutti scritti in uno stile molto colloquiale e moderno e hanno stupendi guizzi fatti di sigle, giochi di parole e battute sarcastiche (“fyi a pov don’t make an ngo”, il riferimento a trump “here come the oompa loompa with nukes/riding hiw fly blown drone, like there ain’t no one home" o la già citata ‘the future of history’); sembra spesso di trovarsi di fronte ad un flusso quasi incoerente che invece, una volta analizzato, rivela le ragioni sottese a tutto il disco: disillusione, frustrazione e apatia che collidono ed esplodono nel suono marcio, ubriaco e violento delle canzoni.


è un disco che riesce a intrattenere efficacemente parlando quasi esclusivamente di cose orribili con un suono putrescente, drogato e verdognolo e sarà senza ombra di dubbio fisso tra i miei ascolti per parecchio tempo.


lunedì 12 novembre 2018

david sylvian, 'secrets of the beehive'


un capolavoro è un disco perfetto? non per forza. esistono capolavori che sono lungi dalla perfezione, altri invece ci si avvicinano spaventosamente ma solo una manciata di opere raggiunge veramente un compimento perfetto. ‘secrets of the beehive’, senza alcuna ombra di dubbio, è fra questi. non fatevi fregare dalla mia "occasionale" poca obiettività, questo è un disco che, oggettivamente, raggiunge in pieno tutti i suoi obiettivi e che riesce a coniugare perfezione formale e contenutistica, oltre ad una simbiosi lirico-musicale che ha ben pochi eguali.

piccola parentesi: ho lavorato con una persona che con sylvian ci ha collaborato, l’ha conosciuto e l’ha visto all’opera; il suo commento riguardo questa esperienza è stato “se solo premi rec mentre gli fai leggere l’elenco del telefono registri un capolavoro”. a parte la battuta, l’espressività vocale di sylvian è ciò su cui si basa l’intero disco (e la sua intera carriera), talmente avvolgente e ipnotica da far passare quasi in secondo piano gli incredibili arrangiamenti di ryuichi sakamoto, fondamentalmente acustici; ma. 
ma da un mago della commistione come sakamoto non puoi aspettarti un lavoro semplice, mai: il sottofondo di queste poesie musicali è fatto sì di piano, chitarre acustiche, archi e fiati ma anche di nastri in loop, chitarre trattate, synth e organi. è una musica da camera, generalmente novecentesca con qualche puntata nel romanticismo, avvolgente e intima, sempre molto chiara negli intrecci e mai caotica; pochissime le percussioni che non virano mai il tono puramente europeo dell’opera.
il fatto che abbia usato il termine “poesie musicali” non faccia pensare che le canzoni siano in secondo piano, anzi, ogni testo viene interpretato in maniera unica, sia vocalmente che strumentalmente e questo risulta in un susseguirsi di melodie memorabili, ognuna con una sua specifica identità inserita nello stile melodico di sylvian. difficile e poco sensato citare le singole canzoni, l’edizione originale del disco dura meno di 35 minuti e scorre come opera unitaria; di certo è difficile non dire dei picchi emotivi di ‘the devil’s own’ o dei sublimi momenti strumentali in ‘when poets dream of angels’ e ‘mother and child’ (retta da una semplice linea di contrabbasso).

i toni sono cupi e piovosi, è un disco autunnale (del resto si apre con ‘september’) e dimesso i cui testi, criptici ma molto immaginifici, rimandano a miti e leggende nei contenuti ma restano moderni nella forma. sylvian abbraccia il suo tono baritonale e lo sfrutta in ogni modo, mostrando fra le righe una padronanza tecnica ferma e sicura (in particolare i suoi vibrato a mezza voce lasciano un segno indelebile).
la lista di ospiti che accompagna l’inglese contiene alcuni dei suoi collaboratori di sempre, oltre all’onnipresente sakamoto ci sono steve jansen e david torn (onirico in ‘the boy with the gun’), ma anche danny thompson al contrabbasso (già collaboratore di un altro cantautore unico nella storia, il genio john martyn) e mark isham a tromba e flicorno, tutti pezzi fondamentali nei puzzle di suoni che compongono i brani. questo miscuglio di personaggi contribuisce alle mille sfumature di un album che non si sbilancia mai verso un genere o un altro ma continua ad accennare alla classica da camera, al jazz, al pop d'autore, sfrutta fraseggi flamenco e cascate di note da avanguardie novecentesche ma si definisce unicamente nella sua originale ed equilibrata commistione. nonostante la quantità di colori e timbri utilizzati è comunque un album assolutamente coeso e perfettamente logico dall'inizio alla fine.

‘secrets of the beehive’ è un disco completamente fuori dal tempo che rielabora le influenze (drake, cohen e persino l’eterno fanciullo ayers) e si pone come pietra miliare del cantautorato (e non solo, i talk talk di ‘spirit of eden’ e gli ulver di ‘shadows of the sun’ ne sanno qualcosa). qui la profondità dei testi si rispecchia sempre nella creatività degli arrangiamenti in una perfezione formale tremendamente seria ma mai pesante; inoltre la sua durata contenuta aiuta l'ascolto, altro segno della coscienziosità di sylvian.
un capitolo unico, non solo nella discografia di sylvian ma della musica leggera tutta.


venerdì 5 ottobre 2018

no-man, 'schoolyard ghosts'


sono passati 10 anni dall’uscita di ‘schoolyard ghosts’ e da allora il progetto è praticamente scomparso nel nulla. certo, dopo il disco ci sono stati i primi concerti della carriera trentennale della band da cui è stato tratto il (mediocre) dvd ‘mixtaped’ ma di musica nuova non se n’è più sentita e questo è un peccato per tanti motivi. uno a caso? probabilmente un disco nuovo dei no-man sarebbe stato infinitamente più interessante di quelle accozzaglie di cliché chiamate ‘hand cannot erase’ e ‘to the bone’.

‘schoolyard ghosts’ invece anche dopo dieci anni di ascolti continua a rapire e a rappresentare uno degli episodi più ispirati e riusciti di tutta la carriera di steven wilson, sta al top insieme a ‘grace for drowning’, ‘flowermouth’, ‘coma divine’ e ‘lightblub sun’ perché riesce a mettere in musica sensazioni molto precise e lo fa tramite un lavoro di scrittura e arrangiamento davvero creativo ed efficace.
se non avete mai sentito i no-man vi basterà ascoltare il primo brano, ‘all sweet things’, e avrete le coordinate sonore dell’intero progetto: atmosfera malinconica, suoni radi e lontani, un’eterna sensazione di sospensione e l’incredibile voce di tim bowness che fluttua nel vuoto, sussurrando di scenari desolati, città deserte nel cuore della notte e camerette buie con finestre sul mondo.
a livello emozionale è un disco molto molto denso che trova picchi (abissi?) profondi e toccanti in composizioni commoventi quali ‘truenorth’, ‘song of the surf’ o ‘mixtaped’.
‘all sweet things’ mette bene in chiaro la cura messa nel registrare e mixare l’album: il piano morbido e dal riverbero largo e infinito contrasta la voce asciutta sussurrata, una chitarra elettrica lontana disegna scenari abbandonati, un po’ alla maniera dell’art rock moderno di gruppi come explosions in the sky o godspeed you black emperor, le chitarre acustiche entrano a dare concretezza al suono e il mellotron si alterna agli archi nel dare tocchi epici e brillanti alle canzoni (per la cronaca, su ’truenorth' troviamo la london session orchestra arrangiata dal veterano dave stewart, al tempo negli uriel, khan, hatfield and the north e altro canterbury).
l’elettronica che nei primi dischi la faceva da padrona qui viene utilizzata come strumento nella tessitura sonora dei pezzi: distorsioni, glitch, manipolazioni del suono, sono tutti colori usati sapientemente lungo l’intera durata del disco.

sorprende invece un pezzo come ‘pigeon drummer’, emotivamente denso e carico di una tensione continua, squarciata da esplosioni di distorsione con la propulsione selvaggia dei tamburi di pat mastelotto (king crimson), un esperimento riuscito che riesce a non stonare in mezzo a tanto vuoto, grazie anche a ‘truenorth’ che lo segue e, almeno all’inizio, svuota completamente il suono, prima di svilupparsi per 13 minuti lungo tappeti sonori tanto affascinanti quanto gelidi e toccanti (strepitosi gli inserti di flauto di theo travis).
nonostante sia un disco estremamente elaborato, arrangiato e pensato, ‘schoolyard ghosts’ riesce a non suonare mai manieristico, mantenendo un flusso costante grazie anche all’incredibile caratterizzazione atmosferica che grazia i brani: se ‘truenorth’ rimane perennemente sospesa, ‘wherever there is light’ è deliziosamente luminosa e rilasciata mentre la seguente ‘song of the surf’ è uno dei momenti più scuri e toccanti del disco, con una melodia triste e rassegnata che sa di spleen suburbano e intimo dolore.
se forse dei tre minuti e mezzo di ‘streaming’ si poteva fare a meno (nulla di grave, intendiamoci, solo un po’ retorica ed interlocutoria), non si può certo dire lo stesso dell’emozionante finale proposto da ‘mixtaped’, una melodia meravigliosa sostenuta da pochi suoni (tra cui il tocco cristallino di un ispirato gavin harrison), feedback e droni in crescendo, uno slowcore intenso al servizio della toccante interpretazione di bowness e un finale che vi lascerà col fiato sospeso.

al contrario di molte produzioni wilsoniane, ‘schoolyard ghosts’ non è un disco solista, è uno sforzo di gruppo in cui ogni ospite porta qualcosa ai pezzi senza mai snaturarne l’essenza.  
è musica per le giornate plumbee, suoni da assimilare sdraiati sul letto mentre la mente vaga per gli infiniti spazi tratteggiati dagli strumenti; è un disco esplicito e “semplice” all’ascolto che però non fa nulla per nascondere la profondità da cui nasce e in cui si tuffa continuamente. non ha niente che vi possa dare fastidio ma quando finirà sentirete un peso sullo stomaco e non è detto che vorrete togliervelo. magari invece premerete di nuovo il tasto play e lascerete che questo sublime torpore duri un’altra oretta.

‘you’d kill for that feeling once again,

afloat on the ocean, beyond the pain.'

venerdì 28 settembre 2018

elio e le storie tese, 'figgatta de blanc'


“mi devo far mal! 
mi devo far molto mal. 
sono un masochista.
mio padres, mi ha lasciato in eredità una bella farmacia: 
“l'aspirinas". ma io mi devo far mal, mi devo distruggere da solo! 
perchè mi devo soffrire da solo! madonna carrettera come soffro!”

squallor, ‘tromba'

è con questo spirito che ho deciso, in una trista mattina di settembre, di riascoltare per intero ‘figgatta de blanc’. ecco il risultato.

l’insulto ai fan è radicato nel dna di questo abominio, fin dall’inizio, quando vengono mischiate le sillabe della mitica introduzione di ‘elio samaga’; mmmm, che idea originale.
poi parte un pezzo funky, il più generico che possiate immaginare, con elio a cantare in un ridicolo e spompo falsetto e i cori a dire ‘fanghi’ su un pezzo funky. wow, che arguzia, che trovata ficcante. potevano in effetti ficcarsela da qualche parte. arriva quasi a dare fastidio il fintissimo riverbero appiccicato sulla batteria, così come l’inutilissima coda del pezzo in cui ‘l’amica della nonna è un trans’, non solo non fa ridere ma è anche un po’ gratuitamente offensiva, nonostante faccia riferimento a un personaggio ben conosciuto dei dischi passati.
‘she wants’ è anche peggio, su una base da porno anni ’90 rocco tanica canta filtrato dall’auto-tune in inglese maccheronico ‘she wants in the posterior’. faccio fatica ad insultare un pezzo del genere, è una cosa talmente inutile, disarmante, umiliante addirittura, un umorismo ancora una volta da scuole medie (perfettamente in linea con la tremenda copertina) che farebbe ridere solo un idiota. i suoni sono tremendi, c’è una genericità da cover band senza alcun mordente che rende tutto di un piattume desolante quanto la carenza di idee. ulteriore insulto, il riferimento in questo contesto alla storica 'peak of the mountain'. sto già pensando a cosa voglio ascoltare dopo e sono passati solo due pezzi.
se c’è una cosa che gli elio non hanno mai saputo fare è l’hard rock; sui primi dischi si arrangiavano, soprattutto grazie alla qualità dei pezzi, qui troviamo ‘parla come mangi’. ho già detto dell’approccio cover band del disco ma qui forse siamo ai punto più basso in assoluto, grinta da turnisti disinteressati, rock da band di papà alla festa di paese. no, scusate, probabilmente quei papà si divertono molto di più quanto abbia fatto il gruppo registrando questa oscenità. 


‘il mistero dei bulli’ è una canzone di cattivo gusto in ogni senso possibile: musicalmente è una semi-ballata sciacquina, vuota e molle con agghiaccianti richiami anni ’80 su cui elio canta un testo che generalizza in maniera molto poco matura sul tema del bullismo, distaccandosene in fretta per andare a dire stronzate sui popoli dell’antichità. arrivano a citare tarzan di vianello, tanta roba ragazzi, tanta roba. non sono neanche a metà e sto per addormentarmi.
‘china disco bar’ è un altro inutile pezzo funkettino, copia di tutti gli altri sul disco. particolarità? non fa ridere. gioca con stereotipi più o meno razzisti restando sulla sottile linea dell’insulto e ogni tanto superandola. meno male che arriva ‘il quinto ripensamento’, una cover di una cover (riprende ‘a fifth of beethoven’ di walter murphy nota per nota) con… delle parole sopra. non mi sento di chiamarlo un testo. inveisco contro ogni divinità, poi mi ricordo che ho scelto io di ascoltare il disco e inveisco contro di me.
‘bomba intelligente’ è praticamente un’altra cover, musica di paolo sentinelli, testo e voce di francesco di giacomo del banco del mutuo soccorso. è una ballata epica e teatrale, indubbiamente l’unico momento salvabile in mezzo a tanta merda ma non certo un capolavoro, è roba che di giacomo faceva già più di trent’anni fa ma funziona anche come tributo al compianto cantante per cui lasciamola passare. orrendi gli assolo di chitarra e violino distorto (mauro 'prezzemolo' pagani) alla fine del brano, di un cattivo gusto che rasenta il livello queen. vi ho mai detto quanto odio i queen? un giorno ve ne parlerò.

arrivare a ‘inquisizione’ è sinceramente una fatica titanica (ti-tanica. visto? son bravo anch’io!), però attenzione perché troviamo la battuta più divertente di tutto il disco: ‘basta dire due cagate per la strada e viene a interrogarti torquemada’. ammetto che ho addirittura sorriso. per il resto è l’ennesimo funky-rock sciapo e sovrarrangiato che, come tutti gli altri brani del disco su questa linea, sembra più una vetrina per il basso di faso che altro. probabilmente tra questi pezzi ‘inquisizione' è il meno peggio, con una bella coda strumentale aiutata dagli inserti di fiati arrangiati da demo morselli. 'la santa inquisizione arriva dalla spagna, ma chi se l'aspettava?', grazie monthy python.
‘ritmo sbilenco’ è un altro di quei brani come ‘la canzone mononota’ in cui elio canta quello che il gruppo suona, un giochino vecchio e stantio, messo qui al servizio di incastri ritmici freddi, forzati e senza nessun reale significato, più un esercizio che altro. "critici famosi dei giornali di settore hanno scritto che canzoni come questa sono di genere progressive”; ah ok. interessante. se rivedrò i king crimson nella vita magari ci penserò durante il concerto. oppure no.
quando arrivo a ‘il rock della tangenziale’ la depressione mi chiude lo stomaco, non ce la faccio più, ho quattro concerti dei grateful dead che mi aspettano… e invece no, tengo duro. gli elio da parte loro si smollano sempre di più, siamo ai livelli di ‘pilipino rock’ se non ancora più in basso. se non bastasse, in ‘il rock della tangenziale’ c’è pure j ax. forse il momento più basso di tutto il disco: j ax che urla "faccio le corna e ti saluto un po’ perché io amo il rock ma anche perché ti devi muovere cornuto”. ora vomito.

rock 'n' rooooolll

‘cameroon’… boh. la versione scartata di ‘parco sempione’? ho ancora faso in faccia con un basso che sta diventando sempre più insopportabile, c’è un altro ‘testo’ che è più un insieme di parole che altro (le quali vanno ovviamente per i cazzi loro come metrica, quasi tutto il tempo). ah indovinate un po’? ci sono un sacco di percussioni. l’avreste mai detto in un pezzo del genere??? dai, mi mancano solo tre pezzi.
‘i delfini nuotano’. come ve la spiego? come me la spiego? boh. per la prima metà è un’orrenda ballata sul giro di 'piattaforma' con un testo singhiozzante che non si capisce bene se sia una presa per il culo delle canzoni contro al razzismo o un pessimo testo contro il razzismo. poi christian meyer ci rivela che il suo nome è pinolo (urca!) e inizia una parte delirante con strofe sovrapposte cantate dai vari componenti del gruppo e un siparietto finale in studio. manca la parte di dialoghi in cui hanno detto “oh ragazzi, ci serve almeno un altro pezzo, cosa facciamo?”.
no per favore, un altro funky rock no. e invece, ‘il primo giorno di scuola’. è una generica copia di tutti i pezzi di ‘pornograffiti’ degli extreme, il testo è triste e più generico possibile, a tratti si sentono delle inflessioni demenziali alla skiantos che rendono il tutto ancora più squallido. ce l’ho quasi fatta, ho anche sopportato christian meyer rock con un suono che scimmiotta gli aerosmith, voglio una medaglia.
si chiude, finalmente, con ‘vincere l’odio’, la vaccata da tre soldi che hanno presentato a sanremo nel 2016, una canzone idealmente composta solo da ritornelli, in realtà un collage di parti che non c’entrano un cazzo l’una con l’altra, una sequenza di stereotipi che, per quanto indubbiamente intenzionale, annoia e distrugge ogni speranza. hanno veramente citato i led zeppelin?


ce l’ho fatta, sono ancora vivo. non voglio pensare al passato, sono stufo, non voglio giustificare tutto questo con “eh però un tempo…”, non c’è alcun modo di giustificare questa merda se non per soldi. non è solo un disco brutto, è un disco che allontana i fan di vecchia data (mi chiedo se qualcuno sia rimasto al loro fianco dopo ‘l’album biango’) eclissando le doti compositive e creative del gruppo, inoltre a tratti cercando di sembrare politicamente scorretto finisce col suonare scorretto e basta. è un disco pressapochista che si accontenta di stralci di idee, li arrangia alla meglio e li dà in pasto al pubblico di x-factor, musica generica, innocua e trascurabile, da qualsiasi punto di vista la si guardi. se il precedente aborto discografico lasciava disarmati per la penuria di idee, qui si passa a un altro livello, l’incazzatura per i rimandi al passato e per l’ennesimo calderone di cliché pasticciati insieme.

è importante notare un paio di cose generali sul disco:
-non è un disco di gruppo, si sente lontano chilometri, sono idee individuali probabilmente scambiate via email e poi messe insieme alla meglio;
-è un disco svogliato in cui mancano completamente verve, originalità e voglia di fare;
-è un disco che può far ridere solo i bambini delle medie. se avete più di 13 anni e avete riso per questo disco, fatevi delle domande.
-se ogni tanto elio avesse scritto qualche testo in metrica nessuno gli avrebbe sparato, diteglielo per favore perché il suo sforare le metriche ormai ha veramente triturato i coglioni, non fa ridere e sembra invece mostrare una svogliatezza totale nello scrivere i testi.
c’è un modo solo per apprezzare questo disco: dimenticate tutto quello che sapete sulla musica, sullo scrivere belle canzoni, sugli arrangiamenti, sul buon gusto e sulle idee originali. se ci riuscite allora apprezzerete ‘figgatta de blanc’, se no vi troverete irrimediabilmente davanti alla vera natura del disco: merda.

ora riascolto ‘eat the phikis’? no, non ne ho nessuna voglia, metto i napalm death.


ps: 
“ma allora perché lo ascolti?”
perché gli volevo bene davvero tanto, erano un gruppo fantastico e detesto quello che sono diventati.
“e hai per forza bisogno di farlo sapere a tutti?”
sì, è la mia forma di protesta.
“a cosa serve ora che si sono sciolti?”
assolutamente a niente, sono felice che finalmente l’abbiano fatto, è la cosa migliore che hanno fatto negli ultimi 10 anni. ora attendo della musica decente, sono fiducioso che possa arrivare.

martedì 25 settembre 2018

prince, 'piano & a microphone 1983'


non ci sono tante storie da raccontare su questa prima vera uscita postuma: nel 1983, dopo '1999' e prima di 'purple rain', un giorno prince entra nel suo studio casalingo, chiede a don batts di far partire il nastro e registra 35 minuti di musica in solitudine, lui, il piano e, appunto, un microfono (il titolo del disco riprende quello dell'ultimo tour di prince nel 2016).
ci sono brani che verranno sviluppati e riaffioreranno negli anni (‘strange relationship’, ‘purple rain’, ’17 days’), brani che non vedranno mai la luce (‘mary don’t you weep’, ‘wednesday’ o ‘cold coffee & cocaine’) e anche una cover di joni mitchell (‘a case of you’), artista amatissima dal nano. il tutto è suonato di fila, senza pause, resituendo l’idea di un artista che si sta divertendo liberamente mentre intanto mette giù idee per canzoni future.

in ogni momento dell’album emerge violentemente il retaggio afroamericano di prince: il suo suono di piano e il suo approccio allo strumento sono percussivi e quasi sempre poliritmici, riportando la mente a duke ellington se non addirittura alle origini del piano afroamericano con rag e stride piano. la tecnica sui tasti è più che invidiabile: prince non suona il piano come sostituto della chitarra, è invece capace di virare la propria sensibilità verso le potenzialità dello strumento e lo usa magistralmente per sottolineare ogni passaggio (avete presente ‘how come u don’t call me anymore’?), regalandoci versioni molto diverse delle varie canzoni rispetto agli originali poi pubblicati.
altrettanto incredibile è la sua versatilità vocale, anche in una versione così casalinga; questo era il periodo in cui nei dischi finalmente anche il suo tono naturale iniziava a prendersi grossi spazi (nei primi tre dischi c'è solo falsetto) e qui lo sentiamo già perfettamente a suo agio nell'alternare i due registri, oltre a una serie di colorismi vocali molto espressivi che attraversano i brani.

è emozionante sentirlo parlare all’inizio di ’17 days’, tanto quanto sentirlo tirare su col naso durante qualche pezzo, forse non è la cosa più fine del mondo ma è talmente raro sentire prince in una versione così “in pantofole” che ogni momento del genere è toccante e fa sorridere qualunque fan.
non si pensi che siccome ‘piano & a microphone’ è un disco per piano e voce allora sia composto di sole ballate, ci sono molti momenti in cui il groove prende il sopravvento e la foga del pianista fa salire la voglia di ballare e partecipare alla festa, sono più o meno gli stessi momenti in cui prince si diverte a fare il verso a james brown (l’inizio di ‘cold coffee & cocaine’ è emblematico in questo senso) e si oppongono alle vere ballate, come la toccante ‘wednesday’ o ‘international lover’, quest’ultima anche superiore alla sua versione di ‘1999’. cito ancora ‘cold coffee & cocaine’ perché in questo pezzo tirato e libero si possono sentire i germi di quello che saranno brani deliranti come ‘bob george’.


guardiamo in faccia la realtà, questa è un’uscita per i fan, una riesumazione dalla vault che ha però un grande valore in quanto mostra un artista rilassato e senza maschere, neanche il tour ‘piano & a microphone’ del 2016 che pure ci si avvicinava moltissimo; qui però non c’è palco, non c’è pubblico, c’è solo prince davanti al suo piano con un microfono, un’esperienza profonda e commovente per qualsiasi fan del genio di minneapolis, per gli altri può essere un’opportunità per scoprire un lato normalmente nascosto di prince.

sabato 8 settembre 2018

sting, '...nothing like the sun'


dopo la fine dei police, sting si è impegnato per imporsi come artista ‘serio’ e non solo come macchina da singoli, come successo ad esempio a phil collins. non che i successi da classifica gli siano mancati, già il primo disco sfoggiava ‘if you love somebody’ e ‘love is the seventh wave’ e almeno un pezzo di ‘nothing like the sun’ diventerà un evergreen mondiale, parlo ovviamente di ‘englishman in new york’.
nonostante questo, ‘nothing like the sun’ è un disco estremamente serio che però sa prendersi i suoi momenti di relax, oasi divertenti in mezzo a un'elevata densità, evitando abilmente di essere pesante.

la band che accompagna il biondo ha classe da vendere: manu katché alla batteria, kenny kirkland alle tastiere, branford marsalis al sax, lo stesso sting al basso e una cascata di ospiti: gil evans, eric clapton, andy summers, mark knopfler… non esattamente un gruppetto di ragazzini e questo si riflette nella complessità degli arrangiamenti e di alcune parti strumentali.
un disco serio, si diceva, dedicato da sting alla madre morta da poco ma anche alle mogli dei desaparecidos cileni (‘they dance alone’), alle influenze di gioventù (la cover di ‘little wing’), a uno zio (‘rock steady’) e perfino ai matti di tutto il mondo (‘sister moon’). serio nel titolo, una citazione di un sonetto di shakespeare che pare essere stata la risposta di sting alla domanda di un barbone, ‘how beautiful is the moon?’.

‘the lazarus heart’ è un inizio emblematico: l’arrangiamento è fitto e stratificato, la batteria è incastrata con percussioni varie, le chitarre in mano ad andy summers creano svolazzi effettistici suggestivi ed avvolgenti, sopra a questo un tema semplice ed orecchiabile che lascia il posto alla voce enfatica di sting. il feeling jazzato che pervade l’intero album qui si concretizza in un break durante l’assolo in cui l’intera band prende una modulazione metrica spettacolare che crea l’illusione di un cambio di tempo che in realtà non c’è.
‘be still my beating heart’ è uno dei brani migliori del disco, una successione di melodie morbide ed ispirate, dal tono cupo e un po’ disperato, spezzato solo da un’apertura in maggiore nello special centrale.
‘englishman in new york’ è il miracolo del disco, un brano che è diventato simbolo per sting (e per il 1987 tutto, grazie anche al bel video) e che vede le due parti musicali del disco (quella pop e quella jazz) mischiarsi su una ritmica in levare che tanto sa di reggae e di stewart copeland, prima di un solo di sax puramente jazz che si sfrangia in un break di batteria aggressivo ed inaspettato.
da citare anche le due ballate, ‘they dance alone’ e ‘fragile’, entrambe molto sentite e profonde (la seconda ha aperto il suo concerto la sera dell’11 settembre 2001), la prima forse un po’ stucchevole ma niente di grave. del resto non stiamo parlando del disco perfetto, ci sono anche brani minori, belli ma non certo imprescindibili: ‘we’ll be together’ è una hit un po’ sempliciotta ma divertente, ‘rock steady’ passa un po’ innocua e ‘straight to my heart’, con un bell’arrangiamento di percussioni fitte in 7/8 che la rendono interessante anche se non memorabile.
strepitosa è invece la cover di ‘little wing’ arrangiata da gil evans, una versione molto personale che aggiunge epicità ad uno dei classici tra i classici del rock e si inserisce perfettamente nella tracklist, subito dopo la perla ‘sister moon’, una ballata jazz che prosegue la linea di ‘moon over bourbon street’ dal disco precedente ma con ancora più classe e una mano compositiva nettamente più esperta e convinta, che serve su un piatto d’argento la possibilità a marsalis di esporre il suo lato notturno e languido.

‘sooner or later we learn to throw the past away’, canta sting in ‘history will teach us nothing’; con ‘nothing like the sun’ sembra veramente che il biondo abbia voluto definitivamente chiudere i conti con il suo passato nei police ma al contempo abbia riabbracciato in pieno il suo amore adolescenziale per il jazz, ora in maniera matura e competente, perdendo quel velo naif che pervadeva ‘the dream of the blue turtles’ e (quasi) tutti i riferimenti alla vecchia band. se questo sia un bene o un male decidetelo voi.
un disco serio ed impegnato che però non si nega momenti di svago e risulta quindi sempre gradevole ed accattivante nonostante l’elevata ricerca sonora che gli sta alla base. dopo questo disco la parte jazz andrà sempre più indebolendosi, lasciando posto al talento pop da ritornello in album come il pur bello ‘ten summoner’s tales’, prima di tornare con un ultimo colpo di coda nello spendido live (e tour) ‘all this time’.


martedì 4 settembre 2018

alice in chains, 'rainier fog'



la “nuova” (ha quasi 10 anni) formazione degli alice in chains vive di contraddizioni, è incarnata dalle sue stesse contraddizioni. prima fra tutte il voler continuare con un nome che molti associano (più o meno ingiustamente) al solo layne staley che, sì, marcava a fuoco ogni pezzo con la sua voce magica ed irripetibile ma non contribuiva quanto si pensa al lato compositivo, ad appannaggio quasi esclusivo di mr. cantrell, il vero signor alice in chains, se proprio dovesse essercene uno.
dal vivo la contraddizione si amplia, il gruppo funziona evidentemente meglio sui pezzi nuovi, sono i dischi che hanno scritto e suonato insieme, eppure il pubblico esplode solo quando vengono snocciolate le varie ‘rooster’, ‘again’, ‘down in a hole’, ovvero quando william duvall si fa da parte e lascia fare il karaoke alla gente, scelta che lascia il tempo che trova ma la plebe impazzisce e allora diamogli quello che vogliono.
‘rainier fog’, terzo disco dopo la rinascita, è di per sé una contraddizione: a livello qualitativo dei pezzi è probabilmente il migliore dei tre, non ha quasi nessun punto morto, se non fosse che ricalca pedissequamente suono, forme e soluzioni dei due dischi precedenti. diciamoci la verità, nessuno si è stupito quando è uscita ‘the one you know’, tantomeno ‘so far under’ o ‘fly’ e, se siete fan del gruppo, non c’è niente qui dentro che vi stupirà, è tutto esattamente come ve lo aspettereste, quindi è fighissimo. contraddizione servita.
ci sono i macigni alla ‘stone’, si chiamano ‘the one you know’, ‘red giant’, ‘drone’ e ‘so far under’, ci sono le power ballad di sempre, ‘fly’, la splendida ‘maybe’ e la conclusiva ‘all i am’ (il pezzo meno interessante dell’album); pezzi tirati? eccovi ‘rainier fog’ e ‘never fade’, dal ritornello scritto apposta per le arene. 
sul serio, non c’è altro da dire, se vi piace il suono degli alice in chains degli ultimi 10 anni consumerete questo disco come avete fatto con ‘black gives way to blue’ e ‘the devil put dinosaurs here’, mettetelo in macchina, tirate giù il finestrino ed alzate il volume.

domenica 1 luglio 2018

nine inch nails, 'not the actual events, 'add violence', 'bad witch'

la prima cosa da constatare, tirando un sospiro di sollievo, è che dopo più di dieci anni di merda a palate finalmente i nine inch nails sono tornati a livelli artistici alti. ‘year zero’, the slip’, hesitation marks’, dimenticate tutta quella merda, quegli insulti ai fan di ‘fragile’ e ‘spiral’, quei mignolini alzati da fighetto dell’era macbook, la disarmante penuria di idee mascherata con ridicoli suoni da ableton; dimenticate tutto, come se non fosse mai successo. avevate perso le speranze? anch'io, e invece...




il primo capitolo è uscito nel dicembre 2016 e si chiama ‘not the actual events’; è il miglior capitolo della trilogia, il più inequivocabilmente nine inch nails, il più marcio e istintivo, semplicemente il migliore. ‘branches/bones’ attacca in faccia come ai tempi di ‘broken’, ‘dear world,’ apre spazi sonori commoventi su un beat insistente e alienante, introducendo uno dei fili conduttori di tutta la trilogia: l’alternanza tra strofe nervose e strette e ritornelli aperti e melodici che non risolvono però le tensioni.
‘she’s gone away’ è uno dei due capolavori, ha un’atmosfera con un che di voodoo, oscuro e religioso, marcio ma tremendamente profondo (il pezzo è stato usato anche da lynch nell’ultima stagione di twin peaks, mi dicono con grande effetto, ammetto di non saperne nulla). le urla umane e delle chitarre distorte in sottofondo, i feedback risonanti, un ritornello che è un mantra, le percussioni che ricordano i dead skeletons (ve li ricordavate? ricordavateveli!) e il loro pout-pourri sonoro da dr.john in trip electro-psych. gran bei momenti.
in ‘the idea of you’ è evidente l’apporto dato dalla batteria di dave grohl, una fisicità spinta che rimanda a ‘the downward spiral’. 
e poi c’è ‘burning bright (field on fire)’. questo pezzo è stato pubblicato in anteprima, quindi è la primissima canzone che abbiamo ascoltato di questo nuovo triplo progetto; oggi posso confermare che è anche la migliore di tutta la trilogia. è un pezzo che gioca con un muro di suono (soprattutto chitarre, con l’ospite dave navarro) che si collega a ‘the day the world went away’ ma lo fa con una disperazione ed una rabbia che mancavano nel suo capolavoro antenato, reznor urla tutto il tempo e canta ben poco, l’atmosfera è pazzesca, il suono di una profondità inusitata, sembra che ci si possa scavare dentro con le mani e il pezzo entra di diritto nell’ideale best of del gruppo. fine del primo atto, il più viscerale, violento e abrasivo, il discendente di ‘broken’ che non sfigura di fianco agli antenati. standing ovation.

luglio 2017, ‘add violence’ fra i tre è l’ep paraculo, ‘less than’ non lascia dubbi al riguardo: se qualcuno ha presente ‘this is a trent reznor song’ siamo lì, è tutto quello che vi aspettate da un pezzo dei nine inch nails sulla scia dei singoloni del passato, soprattutto da ‘the hand that feeds’ in poi. eppure funziona per l’ennesima volta, le melodie sono perfette, l’arrangiamento tamarro al punto giusto e il ritornello esplode e non ti molla più. la struttura dell’ep riprende quella del primo, inizio a mille con finale troncato, secondo pezzo che allarga, abisso reznoriano in mezzo e finale lasciato al suono puro. 
il secondo pezzo è ‘the lovers’ ed è un altro dei picchi della trilogia, una ballata insofferente, inquieta ed instabile, squarciata da un ritornello commovente; ‘this isn’t the place’ gioca con le stesse suggestioni voodoo di ‘she’s gone away’ ma non riesce davvero a raggiungerne il livello, pur essendo un bel pezzo (che poteva stare da qualche parte su ’the fragile’); stessa identica cosa succede con ‘not anymore’, non brutta ma non certo essenziale. 
‘the background world’ invece è un altro trip di quelli da ricordare. è un pezzo medio-lento che si distingue per una melodicità instabile che continua a presagire qualcosa di orrendo; questo qualcosa sono gli ultimi 7-8 minuti di pezzo, durante i quali un unico loop di un paio di misure, appositamente preso fuori tempo, continua a distorcersi sempre di più fino a diventare un blocco nero indistinguibile. se la tecnica in sé non è certo nuova o originale, la drammaticità data al pezzo da questo crescendo alienante è incredibile. in generale questo secondo ep è quello che più ricorda ‘the fragile’ per atmosfere, costruzioni soniche ed intensità emotiva. non sconvolge e coccola con un suono già noto ma lo fa in maniera eccellente. 

giugno 2018, ‘bad witch’ ci viene venduto da trent come un disco intero ma di mezz’ora di durata. vedetelo come vi pare, poco importa, è comunque la terza ed ultima parte parte della trilogia. il mio parere è che almeno un paio di pezzi siano stati aggiunti quando l’ep era già finito, due pezzi di troppo anche nel contesto generale, piuttosto sciapi e inutili: ‘god break down the door’ e ‘over and out’, maldestri quanto poco utili tributi a david bowie che mostrano più i limiti di reznor come cantante “educato” che altro.
al contrario ci sono almeno due nuovi picchi, nella forma di due strumentali clamorosi che rispondono al nome di ‘play the goddamned part’ e ‘i’m not from this world’. qui davvero reznor mostra una possibile strada futura per il suono dei nine inch nails, costruendo uno suono che parte dagli strumentali di ‘the fragile’ e li filtra con una nuova sensibilità, quella che aveva funzionato piuttosto bene nel disco dei how to destroy angels. sembrano jam elettro-psichedeliche, nelle quali il ritrovato sax di trent si produce in loop, distorsioni, delay, loop e effetti vari, intrecciandosi con la texture di percussioni elettriche e acustiche mentre il suono attorno viene allestito lentamente. tutta la classe e la finezza che mancavano dal 2005 nella discografia del gruppo. forse il grande merito di questo terzo atto è proprio di riuscire ad essere contemporaneamente marcio e stiloso, come ai bei tempi.
restano le buone ‘shit mirror’ (eddai) e ‘ahead of ourselves’ in apertura, nulla di eccelso ma neanche di terribile, due pezzi tirati che però non toccano le vette del primo ep.

in generale si nota una ritrovata ispirazione, una creatività che sembrava morta e sepolta (se non per qualche colonna sonora) e invece oggi esplode nuovamente dopo un letargo di più di 10 anni. c’è purtroppo da notare come i tre ep siano andati in calando come qualità media, pur andando da ottimo a buono senza mai toccare l’insufficienza. l’apporto di atticus ross sembra finalmente integrato nel suono del progetto e non suona più come un fastidioso intruso, c’è un’instabilità e un senso di pericolo che mancava da ‘with teeth’, c’è un suono avventuroso e coinvolgente che non ha necessariamente bisogno della dimensione live per dire qualcosa, ci sono melodie memorabili e arrangiamenti dinamici e fantasiosi.

sembrerà poco forse ma per chi è cresciuto a pane e ‘fragile’ e poi si è ritrovato davanti ‘year zero’ non è poco per un cazzo. un giorno forse vi parlerò di quel disco. o forse sarò riuscito finalmente a dimenticarmi che esiste, grazie anche a questi tre ep.

mercoledì 23 maggio 2018

the armed, 'only love'



era da un po’ che non sentivo un gruppo fare un simile casino. seriamente, i the armed in ‘only love’ ti attaccano alla giugulare dal primo all’ultimo secondo, sono 40 minuti scarsi di aggressione sonora frontale, senza mediazioni, senza pietà. gli strumenti (chitarre, basso, ben koller alla batteria, tre voci, synth a palate e fiati ogni tanto) non si fermano un secondo, il mix è volutamente caotico, saturo e insensatamente aggressivo, il master è compressissimo e ad un volume osceno, tutto in ‘only love’ è fatto per arrivarvi in faccia, sfondarvi il cranio per uscire dall’altra parte e andare a cercare la prossima vittima.
le partiture sono cervellotiche e difficili ma non dimenticano mai l’impatto (non sia mai), anche nei pochi momenti più melodici la foga dei the armed non cala di un centesimo. vi può bastare sentire la conclusiva ‘on jupiter’ per capire di cosa parliamo, la sezione centrale vi farà sanguinare le orecchie. 
vi state chiedendo cosa suonino questi? boh. è una forma moderna, deformata e perversa di hardcore, senza che ci sia realmente il suono hardcore, se non per la velocità mostruosa a cui tutto è lanciato; in mezzo però ci sono una valanga di synth orrendamente digitali (un po’ come in ‘city’ degli strapping young lad), melodie nascoste nel marasma, tempi dispari, vocine femminili, linee di fiati (che ti chiedi “ma l’ho sentito o me lo sono immaginato?”), un vero e proprio massacro sonoro. non è certo stata una scelta casuale quella di avere koller alla batteria, ci sono momenti in cui i converge non sono così lontani. 
potrei citare questo o quel pezzo, sinceramente non mi interessa farlo, questo disco è un blocco unico, un macigno in cui si fa fatica a distinguere le singole parti, anche perché praticamente non c’è mai nessuna pausa tra un pezzo e il seguente. una delle cose che mi fa più paura (e quindi preferisco) di questo disco è che non riesco mai ad ascoltarlo una volta sola, nonostante il massacro, una volta che l'ultimo feedback sparisce resta una voglia oscenamente masochistica di schiacciare play di nuovo e ripartire da capo.
diamo atto ai the armed di aver fatto uno dei dischi più rumorosi degli ultimi dieci anni, di averlo fatto in maniera inaspettatamente intelligente e, soprattutto, di averlo fatto veramente bene. senza ombra di dubbio ad oggi il miglior disco di questo 2018 loffio e noioso che, per ora, ha fatto sussultare solo per il bellissimo e bistrattato ‘boarding house reach’ di jack white e deluso in mille altri modi: orphaned land, justin timberlake (fuori fuoco e senza ispirazione), at the gates (orrendo e molle), sting (ridicolo e noioso), arctic monkeys (brutto), sleep (davvero sono l’unico che avrebbe preferito un nuovo disco degli om???).

bravi bravi bravi, venite anche voi a farvi del male, arriverete alla fine con un gran mal di testa, non ci avrete capito un cazzo ma ne vorrete ancora.

ps: il disco è scaricabile da bandcamp aggratis, oppure a offerta libera. non siate (troppo) stronzi, lasciateglieli due spicci.

venerdì 20 aprile 2018

prince, 'lovesexy'



ci sono pochi dubbi sul fatto che il tour di ‘lovesexy’ sia stato uno dei vertici di prince, uno spettacolo incredibile per musica, coreografia, trasporto e messaggio, con il nanetto incontenibile alla guida di una band che definire compatta è un eufemismo. sul disco invece, a mio umile parere, c’è da dire. non che sia un brutto disco, per carità, però l’ho sempre trovato mezza spanna sotto a ciò che l’ha preceduto, fosse anche solo per un paio di pezzi che sono mirabilmente rappresentati da quella copertina in cui genio ed egocentrismo si scontrano violentemente, provocazione e ridicolo fanno a pugni per comandare. 

partiamo da qui e chiamiamoli per nome questi pezzi, facciamoci dei nemici: ‘glam slam’, ‘anna stesia’e ‘i wish u heaven’ sono tre canzoni che ho sempre trovato un passo oltre la linea del ridicolo. la prima ha come colpa l’eccessiva spinta enfatica e un ritornello che invece che naif suona banale, oltre a momenti di grandeur ingiustificata che ricordano uno dei peggiori gruppi della storia, i queen (cosa orrenda che ricapiterà qualche anno dopo in ‘o(+>’). la canzone trova un momento migliore nella coda strumentale dissonante che per un minuto non suona come una presa in giro. ‘anna stesia’ è meno peggio, una ballata struggente, ancora una volta in parte rovinata da un’enfasi corale che ne sminuisce il potenziale, che si salva grazie ad un’interpretazione vocale eclettica e sentita e ad una bella chitarra che commenta l’intero brano come farebbe carlos santana (un’influenza più volte dichiarata apertamente dal prince chitarrista).
‘i wish you heaven’ invece l’ho sempre trovato un pezzo semplicemente brutto. fatto bene, ben congegnato, ben scritto ed eseguito, non si discute, ma brutto brutto brutto. la chitarra che prima commentava ora invade con un suono pacchiano e fuori contesto, le voci vorticano attorno ad una melodia stucchevole con tanto di doo-doo-doo-la-la-la demenziali. ha un vantaggio: dura poco, in meno di tre minuti scomparirà per sempre dalla vostra vita.

veniamo invece ai buoni motivi per ascoltare ‘lovesexy’.
‘eye no’ (='i know', se ve lo steste chiedendo) è l’unica prova di gruppo di un disco altrimenti dominato dal solo prince con shelia e alla batteria su tutti i pezzi meno tre; fiati ad opera dei fidi eric leeds e atlanta bliss e qualche coro qua e là, fine, tutto il resto è lui da solo. ‘eye no’ si diceva, la nuova versione di ‘the ball’, scartata due anni prima e ora rielaborata, un funk dall’aria spiritual (le prime parole pronunciate da prince sono ‘i know there is a heaven, i know there is a hell’), pieno zeppo di suoni di varia natura, apertura roboante di un disco eclettico ma più coeso dei precedenti. apertura buona ma poi tocca subito al capolavoro del disco, ‘alphabet st.’, ovvero la nuova ‘kiss’, dalla chitarra inconfondibile, il ritornello a mille voci, i cori assurdi che erano stati perfezionati nel biennio 85-86, una lunga sezione strumentale in cui ne succedono di ogni, un groove che è una sassata in fronte e, in generale, un’energia trabordante che esplode nel frenetico rap di kat. un vero colpo da maestro che non mancherà di far impazzire mezzo mondo, prima di venire criminalmente trasformato in un mediocre siparietto country-funk per il resto della carrriera live.
la divertente ‘dance on’ divide in due il disco, con una stupenda ritmica (tutta anni ’80) di sheila e e un synth basso che non escludo sia piaciuto moltissimo a trent reznor (confrontatelo con quello di ‘somewhat damaged’).
la canzone ‘lovesexy’ è probabilmente la più rappresentativa del disco, per farsi un’idea di come suona l’intero album si può ascoltare solo questo brano. esempio mirabile di anarchia controllata, è un pezzo in cui la struttura si disintegra in mille rivoli che si dividono e sovrappongono nel caos di voci, fiati, synth e chitarre; solo la ritmica resta stabile mentre attorno tutto balla in un’orgia che sembra aggiornare ‘1999’: se si balla ancora per la fine del mondo, ora si cerca la salvezza e si viene avvolti da una luce abbagliante. è un altro di quegli apici compositivi di prince che però non riesce a risultare incisivo come in passato, forse un po’ soffocato dall’eccessiva elaborazione. (curiosità: nella strofa la chitarra fa un riff che ricorda moltissimo quello di ‘escape’ dei journey, un paio d’anni dopo rubato anche da michael jackson per ‘black or white’.)
‘when 2 r in love’ arriva dal ‘black album’ e prosegue sulla linea di ‘condition of the heart’, una ballata riccamente arrangiata che gioca sui contrasti tra pieno e vuoto, aiutata dall’ennesima prova vocale incredibile e ottima per decomprimere dopo gli eccessi della title-track.
‘positivity’ chiude questo viaggio nel lato più eccessivo della musica di prince. all’inizio ci si stupisce per la misura che sembra voler mantenere, poi pian piano si torna al muro di suono di prima ma quasi non ce ne si accorge: il brano funziona proprio grazie a questa accumulazione graduale che continua a crescere e decrescere e ad una serie di melodie che ritrovano quei turbamenti di tensione mancanti in brani come ‘glam slam’ o ‘i wish u heaven’. è un altro brano che anticipa i rap degli anni ’90 senza essere realmente rap ma usandone la tecnica in alcuni momenti. i cori gospel sul finale testimoniano l’intenzione spirituale dell’album, lasciando che le ultime parole pronunciate siano “hold on 2 your soul”.

esiste una sola outtake di queste sessioni, ‘the line’, un pezzo influenzato dalle tendenze dance del momento che non va da nessuna parte, per quanto non sia orribile. due invece le b-side, ‘escape’ per ‘glam slam’ e ‘scarlet pussy’ per ‘i wish you heaven’ (ebbene sì, dopo ‘alphabet st.’ gli altri singoli sono stati i due pezzi peggiori del disco). la prima non è granché, gioca con qualche tema di ‘glam slam’ ma gira in tondo e non aggiunge niente; ‘scarlet pussy’ invece diverte con una narrazione fatta di voci filtrate, inserti melodici ad opera di sheila e e camille ed un tiro micidiale, un pezzo che avrebbe sicuramente meritato un posto sull’album principale invece che in panchina (magari proprio al posto di ‘i wish u heaven’)
.
‘lovesexy’ è il primo disco di prince dall’82 a vivere di alti e bassi, il primo a contenere un paio di pezzi propriamente brutti che verranno infatti dimenticati molto presto, non però prima di aver fatto parte del grande circo che è stato il tour mondiale successivo.
è facile farsi un’idea di cosa fosse uno di quei concerti poiché la serata di dortmund è stata filmata, trasmessa e pubblicata in tutto il mondo (ho ancora la vhs registrata da rai due).
nei primi 5 minuti di concerto sale prince sul palco… in macchina (ford thunderbird, ovviamente). questo mentre la cassa scandisce il beat che rivelerà ‘erotic city’; ebbene sì, prince si permette di aprire i concerti con una b-side. non solo, nel farlo balla, striscia, corre e fa il cretino con sheila e mezza nuda che ogni tanto suona percussioni sparse in giro. era uno show che non lasciava nulla al caso, con coreografie complesse studiate nei dettagli, arrangiamenti evoluti strutturati in grossi medley della durata di varie decine di minuti in cui la band non si fermava un secondo. sul palco, oltre alla macchina, c’è un campetto da basket, oltre a varie passerelle e piazzole e un letto matrimoniale su cui succedono… cose. è un palco circolare posto in mezzo ai palazzetti ed è di dimensioni importanti, come si sarà intuito.
la prima parte dei concerti (la parte ‘oscura’, domaniata dal personaggio di ’spooky electric') era un best of di un'ora in cui si susseguivano senza sosta capolavori come la citata ‘erotic city’, ‘housequake’, ‘adore’, ‘head’, ‘little red corvette’ e ‘dirty mind’, oltre ad una carrellata di alcuni pezzi liricamente osceni come 'jack u off', 'head' e 'sister' che da qui in avanti non rivedremo mai più o quasi.
dopo questi 50 minuti arrivava il primo pezzo di ‘lovesexy’, ‘anna stesia’, appena prima della pausa. 
di contro, dopo cambi d’abito, acconciatura e scenografia, il secondo set (la parte luminosa, comandata dal personaggio di ‘lovesexy') era basato sul nuovo disco e lo suonava quasi per intero, con i brani intervallati da altre perle come ‘the cross’ o ‘kiss’. in questa sezione si riusciva a rendere più interessante anche un brano come ‘i wish u heaven’, con la chitarra a prendere il sopravvento. 
dopo il tamarrissimo assolo di batteria di sheila e, prince da solo al piano va a ripescare gioielli come ‘venus de milo’, ‘condition of the heart’ e ’strange relationship’ (in alcune date anche ’starfish and coffee’), prima di imbracciare la chitarra per il massacro finale con ‘let’s go crazy’, ‘when doves cry’, ‘purple rain’, ‘1999’ e ‘alphabet st.’, unico tour in cui quest’ultima veniva suonata in versione vicina all’originale. 

vediamo quindi che per un disco forse non ben bilanciato c’è un tour che è un’opera d’arte a sé, la fotografia migliore di questo straordinario periodo. il video di dortmund è superiore a ‘sign o’ the times live’ e almeno di pari livello con il live di ‘purple rain’ di syracuse.

da qui in avanti nulla sarà più uguale, prince farà pulizie nella vault con ‘graffiti bridge’ per poi toccare quello che fino ad allora era il punto più basso della sua discografia, il deludente ‘diamonds and pearls’. altri tempi, altri musicisiti, altre storie, magari un’altra volta. per ora restiamo nel sogno del circo di ‘lovesexy’ come se nulla fosse successo.

giovedì 19 aprile 2018

prince, 'sign o' the times'



ora che sapete cosa sta alla base di questo disco, è finalmente giunto il momento di parlarne.
è il 31 marzo 1987 (il 30 in inghilterra) quando 'sign o’ the times’ viene pubblicato e, ancora una volta, esplode in tutto il mondo. il lavoro di distillazione che prince ha compiuto sul materiale di ‘crystal ball’ ha smussato gli angoli, anche se il prezzo non è indifferente visto che per strada si perdono proprio ‘crystal ball’, ‘joy in repetition’ e ben 4 pezzi di ‘camille’ (‘rebirth of the flesh’, ‘rockhard in a funky place’, ‘shockadelica’ e ‘good love), oltre alla neonata ‘the ball’. ciononostante, il risultato è un altro miracolo e l’ennesima evoluzione di prince, sia musicale che estetica.

“prince con gli occhiali” è una buona sintesi della nuova immagine: non scompare il lato animale (anche se viene confinato in zone precise) ma all'improvviso viene allo scoperto il versante intellettuale e spirituale dell’artista, con testi che si inerpicano per gli insidiosi sentieri della critica sociale, della religione e delle questioni esistenziali, il tutto affiancato ai soliti momenti di festa e delirio, i quali però sembrano intrisi di una lieve malinconia.
di sicuro è il disco con cui prince torna in un contesto più legato al suo tempo, dopo due dischi fuori sincro come ‘around the world in a day’ e ‘parade’. il rap è esploso e non si può fare a meno di notarlo nelle ritmiche, è forse l’elemento più “nero” di un album che ancora una volta gioca sull’equilibrio fra suono afroamericano (‘housequake’, ‘slow love’, ‘it’s gonna be a beautiful night’) e rock bianco (‘play in the sunshine’, ‘strange relationship’, ‘the cross’).
'sign o’ the times’ è un ritorno netto di prince solista: sciolti i revolution, ri-registra vari brani per togliere i loro contributi oppure li annega nei mix per nasconderli, come nel caso di ‘strange relationship’ che qui perde l’aura etno-psych e si mostra come più semplice canzone pop; mossa vincente? per il disco sì, quei rimandi sarebbero stati forse fuori luogo, ma per quel brano in particolare no, poiché perde un pochino della sua magia.

qui finalmente la title-track arriva alla sua forma più compiuta, con la coda percussiva dopo l’assolo di chitarra. è un brano che è diventato paradigmatico per prince, sia liricamente che musicalmente: la ritmica scarna, la chitarra secca, pochi synth e la voce sinceramente preoccupata, è una formula che negli anni ’90 verrà ripresa più volte dall’artista. liricamente riesce invece a mettere un sacco di carne al fuoco senza mai essere troppo complessa o elaborata, il linguaggio è diretto come la musica ed il significato difficilmente fraintendibile (come invece succederà a volte in futuro).
‘housequake’ è uno dei capolavori assoluti, un brano con cui prince entra a gamba tesa sul mondo della musica, inventandosi un nuovo modo di suonare funk negli anni ’80 senza l’orrenda patina di plastica che ricopriva tutto in quel periodo. è un brano dalla struttura apparentemente aperta ma in realtà molto studiata (un’illusione che prince è sempre stato bravo a creare), se si pensa che i continui break chiamati alla band sono in realtà chiamati a… sé stesso, o al limite a leeds e bliss. 
altro miracolo è ‘the ballad of dorothy parker’, un pezzo che gioca con quell’immaginario psichedelico/sixties (cita apertamente joni mitchell) con cui ogni tanto prince si trastullava: strati sonori, campioni, voci parlate e una storia fatta di stanze violente, vasche da bagno e bolle di sapone, tutto in un suono morbido e vellutato che non aggredisce mai ma invece culla con una vibrazione malinconica che lo attraversa. parlando di psichedelia non si può evitare di citare ‘starfish and coffee’, ancora più in debito con la fine degli anni ’60 e i suoi suoni lisergici (qui abbiamo anche una chitarra in reverse alla lennon).
se il lato animale viene recintato in zone sicure (‘it’, ‘hot thing’, ‘u got the look’, tutte dal suono torbido e aggressivo), quello spirituale pervade un po’ tutto l’album, con frasi tra il filosofico e l’esistenziale che si insinuano anche nella title-track o in ‘play in the sunshine’ (“i’m gonna find my four-leaf clover, before my life is done, somewhere, somehow i’m gonna have fun”). la vera esplosione spirituale si ha in pezzi come ‘forever in my life’, ‘the cross’, ‘adore’ e ‘if i was your girlfriend’, ognuno con una sfumatura diversa: ‘the cross’ tocca ovviamente il tema religioso, con un mezzo spiritual in punta di piedi fino all’esplosione hard rock finale; ‘forever in my life’ gioca con l’ambivalenza amore-religione su un arrangiamento assurdo per batteria e voci (canoni, fughe, incastri, tutti strumenti che mostrano lo studio e la preparazione alla base di queste canzoni); 'adore’ è una delle più belle canzoni d’amore di prince, un flusso di parole in falsetto che verrà imitato più volte negli anni ’90 con scarsi(ssimi) risultati, accompagnato da un crescendo musicale da brividi; e infine ‘if i was your girlfriend’, capolavoro di ambiguità che, dietro a un’altra canzone d’amore, maschera uno slancio verso le grandi domande della vita, con il cambio di sesso come veicolo per ottenere maggiori risposte. è un brano sul cui aspetto psicologico ci sarebbe da parlare per ore, con prince che si immagina fidanzata del partner, mostrando una cura ed un’attenzione nei particolari che lascia a bocca aperta, un’immedesimazione quasi straniante per profondità.

delle outtake direi che ne abbiamo abbondamente parlato nell’articolo precedente, qui in più c’è solo la b-side di 'sign o’ the times’, ‘la, la, la, he, he, hee’, un pezzo musicalmente divertente ma che non aggiunge nulla al disco, se non un testo seriamente demenziale che pare sia uscito dalla penna di sheena easton (l’ha dichiarato lei nel 2012 e lui non ha mai contraddetto. non vedo perché avrebbe dovuto.) nell’87. di tutto il materiale eccelso che circonda questo disco, che proprio questa canzonetta sia stata scelta come b-side di 'sign o’ the times’ lascia seriamente perplessi (ne esiste una versione ‘highly explosive’ da 10 minuti, cercatela se non avete proprio niente di meglio da fare).

'sign o’ the times’ non è un disco difficile e non è un disco semplice. se lo mettete in macchina e alzate il volume ve lo godete tantissimo, se vi mettete a seguire i testi ascoltando il vinile sul divano ve lo godete in un modo completamente diverso, può essere preso sia superficialmente che in maniera profonda, motivo per il quale ha avuto quel successo spaventoso. in questo possiamo notare l’influenza su prince di una tradizione come quella di duke ellington, maestro nel costruire impalcature concettuali profondissime per poi ricoprirle da una melodicità irresistibile che conquistava il mondo.

e se non fosse bastato il disco per conquistare il mondo, il tour ha decisamente rincarato la dose. la voglia di cambiamento era evidente fin dalla scaletta, che presentava l'intero 'sign o’ the times’ meno ‘starfish and coffee’ e ‘strange relationship’ (guarda caso i due brani con i maggiori input dei defunti revolution) e ben poco dal passato: un medley con ‘let’s go crazy’, ‘when doves cry’ e ‘purple rain’, ‘1999’, ‘little red corvette’ non intera e ‘girls & boys’. 
esistono vari filmati di questo tour da affiancare a quello ufficiale, che però non è un vero live ma un ibrido tra studio, live e playback creato per avere una sorta di narrazione. sono spettacoli di grande carattere in cui però si avverte un assestamento in corso, che si realizzerà solo nel pazzesco tour di ‘lovesexy’, probabilmente il migliore di tutta la carriera. consigliato il video ‘for those of you on valium’, data di prova del tour al first avenue di minneapolis.

’sign o’ the times' è uno dei dischi più riveriti, ammirati ed imitati di un intero decennio e del pop in generale, un frullatore musicale in cui mille suoni, parole e colori si uniscono a formare una sola immagine, quella inconfondibile di prince. quella che a prima vista può sembrare un’opera slegata e poco coesa, all’ascolto si rivela un viaggio pianificato nei minimi particolari, da un inizio più terreno verso uno svolgimento sempre più spirituale, senza l’eccessivo slancio enfatico che romperà in parte le gambe a ‘lovesexy’. 

opera di equilibrio mirabile, frutto di una sintesi accurata ed intelligente, emblema della genialità di prince.

mercoledì 18 aprile 2018

prince 1985-1986: 'roadhouse garden', 'dream factory', 'camille', 'crystal ball'


se pensate che il periodo ‘purple rain’/‘parade’ sia un labirinto di outtakes e pezzi inediti, non avete idea di cosa sia successo dopo. avviso i naviganti che il seguente articolo è estremamente nerd in quanto parla di quattro dischi che non esistono, sono esistiti per un periodo limitato nella mente di prince, sono fatti di pezzi che sono rimasti nella vault e non sappiamo se mai ne usciranno in versione ufficiale. ringraziamo però generazioni di bootlegger che oggi ci permettono di averne delle versioni “ricostruite”, tramite i nastri trapelati negli anni, in versioni tranquillamente ascoltabili. 
parlando di materiale mai pubblicato, spesso ci si trova di fronte a brani con 3 o 4 versioni diverse registrate in periodi diversi, come ad esempio ‘witness 4 the prosecution’. va ricordato inoltre che almeno due membri dei revolution, ovvero wendy e lisa, quando intervistate al riguardo hanno messo in guardia chi cerca di ricostruire questi “dischi”, dicendo che per loro sono sempre stati un insieme di brani registrati in varie sessioni senza un grande disegno dietro. ma quando si parla di prince è sempre difficile capire in corso d’opera quale sia lo scopo finale, non è uno di quei disegnatori che con due tratti ti fanno già capire il soggetto, lui operava a canzoni e poi tirava le fila alla fine. forse. invece susannah melvoin, sorella di wendy e allora compagna di prince, ha dichiarato che almeno ‘dream factory’ per un periodo era stato un progetto di album, almeno stando a quello che le diceva prince stesso, oltre al fatto che di ‘camille’ esistono foto di un test pressing.
insomma, un sacco di seghe mentali e un cercare di ricostruire quel/quei tassello/i mancante/i che sta/stanno tra ‘parade’ e ’sign 'o' the times’. pronti, via.

i: roadhouse garden

rispetto ai "dischi fantasma” successivi, il progetto ‘roadhouse garden’ orbitava (ipoteticamente) attorno ad una serie di pezzi che non sono più stati pubblicati e non sono sempre semplici da reperire, a parte alcuni, come ad esempio la canzone ‘roadhouse garden’, recentemente inserita nel disco di inediti della ristampa di ‘purple rain’, nella versione attaccata a ‘our destiny’. questi sono i due brani che si possono ascoltare in qualità migliore (insieme a ‘wonderful ass’ dalla stessa ristampa) e sono indubbiamente un ascolto interessante. nella versione pubblicata troviamo wendy alla voce nella prima parte e prince nella seconda, è un pezzo volutamente naive che ricorda la teatralità di kate bush in ‘hounds of love’, sebbene wendy melvoin non sia kate bush. prosegue un discorso sempre più europeo iniziato con ‘condition of the heart’ e proseguito con ‘take me with u’, ‘i wonder u’ e ‘do u lie’ in cui le sonorità classiche filtrano nella sensibilità di prince tramite wendy e lisa.
‘splash’ è un altro pezzo che è stato pubblicato, in questo caso nel ’98 quando, dal nulla, prince (all’epoca o(+> ) (scusate, ci tenevo a farlo) ha annunciato di voler pubblicare una versione ricostruita del disco. ovviamente poi non se n’è fatto nulla, pare perché wendy e lisa erano lesbiche e quindi gesù non voleva. ad ogni modo, il pezzo è stato pubblicato online e possiamo quindi godere della sua atmosfera delicata e jazzata, caratterizzata da un uso massiccio di armonie vocali, fino al morbido finale dal club notturno.
altri brani trapelati nel tempo sono ‘teacher, teacher’, ‘in a large room with no light’, ‘witness 4 the prosecution’, ‘wally' ed ‘empty room’. sono brani molto diversi tra di loro, tanto da far traballare l’ipotesi che dovessero stare sullo stesso disco; è anche vero che se avessimo sentito i demo di 'parade' senza conoscere il disco l’impressione non sarebbe stata molto diversa. 
‘teacher, teacher’ è sicuramente sulla linea di ‘roadhouse garden’: evidenti il contributo di wendy e lisa, che prendono la lead per buona parte del brano, un retrogusto psichedelico/europeo 60s e una leggerezza di fondo che rendono il brano gradevole e fresco.
‘in a large room with no light’ (titolo originale ‘life is like looking for a penny in a large room with no light’) è invece segnata da un testo scuro e paranoico, in cui l’ombra della guerra incombe come faceva in ‘ronnie, talk to russia’ e come farà in ‘sign o' the times’. questa oscurità è però bilanciata da un arrangiamento latin/calipso stratificato e complesso, in cui le melodie arrivano a ricordare le obliquità di frank zappa. nella versione che si trova più comunemente è bene notare come alla batteria troviamo già sheila e invece di bobby z e il nuovo arrivato levi seacer jr. al basso, musicista che resterà al fianco di prince per molto tempo, passando nei primi ’90 alla chitarra ritmica; vediamo qui come i revolution si stessero già disintegrando lentamente.
‘wally’ è un brano dalla storia curiosa e, nella sua versione originale, è uno degli inediti più ricercati e riveriti di prince, aiutato dalla sua leggenda: il brano parla della fine del rapporto con sussannah melvoin, sorella di wendy; pare che la prima versione registrata fosse stata considerata da prince troppo personale e intima, per cui fece cancellare completamente i nastri a susan rogers, la quale dichiarò anni dopo che quella fu una delle poche volte in cui vide prince mettersi veramente a nudo. io ovviamente non ho idea di come potesse essere questa versione, probabilmente nessuno ce l’ha a parte prince stesso e la rogers, quello che ci è pervenuto è una stesura successiva, in cui eric leeds e atlanta bliss aggiunsero i fiati e prince complicò ulteriormente l’arrangiamento, quasi a volersi nascondere dietro gli strati di suono. è un bel pezzo, ben scritto e ben arrangiato, tuttavia vien da pensare che se non avesse la leggenda alle spalle non sarebbe così riverito.
‘empty room’ ha un’altra storia travagliata: registrata nell’85 coi revolution, fu scartata salvo essere ri-registrata nel ’92 per il film ‘i’ll do anything’ e poi scartata di nuovo; però nel ’94 prince pubblicò un video usando le registrazioni originali dell’85 per cui è facilmente reperibile. è un brano molto aperto, un po’ sulla scia di ‘another lonely christmas’, dall’esecuzione energica contrapposta al falsetto leggero della voce.

di ‘witness 4 the prosecution’ esistono varie versioni: la prima vede il solo prince all’opera su tutti gli strumenti, la seconda (di un paio di settimane dopo) invece è riempita da wendy (chitarra e cori), lisa (hammond e cori), eric leeds e atlanta bliss (fiati) e risulta più piena, più rifinita e sicuramente più incisiva. alla terza versione ci arriveremo a tempo debito, quella che è stata intesa nel ’98 per la pubblicazione di ‘roadhouse garden’ era la seconda versione, del 15 aprile 1986. è un brano fittamente arrangiato e curato, alla maniera di ‘wonderful ass’, e funziona magnificamente con la sua fusione di chitarre rock lerce e un tiro funky bestiale, un suono non lontano da quello che avrà ‘lovesexy’ in pezzi come ‘scarlet pussy’.
anche ‘wonderful ass’ ha passato la sua bella trafila di rimaneggiamenti: la versione originale dell’82 è stata registrata, come sempre, in solitaria dal nanetto con jill jones ai cori; nell’84, dopo un lavoro di arrangiamento che pare sia stato estenuante, wendy e lisa hanno aggiunto chitarre, tastiere e cori. questa è la versione che sembra sarebbe finita su ‘roadhouse garden’, è un brano pieno di linee melodiche che si incrociano, ricco di timbriche fino quasi alla saturazione e tirato dalla magica chitarra funky onnipresente, un altro mirabile esempio delle capacità di arrangiatore di prince.

gli ultimi brani che prenderò in considerazione non si sa bene per cosa fossero intesi. provengono da una delle ultimissime sessioni in studio dei revolution, a questo punto estesi a band di 9 elementi, alla washington avenue warehouse di minneapolis nel giugno dell’86. due di questi pezzi erano negli archivi già da un po’ di tempo e sono ‘we can funk’ e ‘can’t stop this feeling i got’, gli altri due invece sono nuovi e si chiamano ‘girl o’ my dreams’ e ‘data bank’; come sappiamo i primi due brani saranno poi usati in ‘graffiti bridge’ mentre ‘data bank’ finirà su ‘pandemonium’ dei the time, lasciando ‘girl o’ my dreams’ nel dimenticatoio. non che sia un pezzo memorabile, qui fa il paio con ‘can’t stop’, ancora nella sua versione rockabilly: è un pezzo leggero e divertente in cui però si nota la compattezza della band. ‘we can funk’ è in una versione invece grandiosa, pari a quella pubblicata: il gruppo suona in maniera incredibile, energici e sporchi al punto giusto, la prestazione vocale è perfetta e alla produzione manca quella patina plasticosa che ci sarà su ‘graffiti bridge’. ‘data bank’ è invece il classico funk secco del periodo ‘parade’, otto minuti e mezzo di groove inarrestabile e fronzoli di fiati, piuttosto diversa dalla versione tastierosa e pompata dei the time.
esiste un altro brano del periodo, ‘go’, di cui però ho potuto ascoltare solo poco più di un minuto, per altro in bassa qualità; sembra un brano che avrebbe potuto stare su un disco con ‘splash’ e ‘roadhouse garden’, con wendy e lisa in primo piano e gli archi sintetici che giocano sullo sfondo.

come potete vedere c’è molta confusione. forse perché, come tutti i musicisti coinvolti dicono, prince non aveva in mente un disegno preciso per questo ‘forse album’; di contro, ascoltando la musica prodotta, non è affatto difficile immaginare un album che contenesse ‘roadhouse garden’, ‘our destiny’, ‘empty room’, ‘splash’, ‘wonderful ass’, ‘witness 4 the prosecution’, ‘teacher, teacher’ e ‘in a large room’. le affinità tra questi brani sono lampanti  ed è bello crogiolarsi nell’idea che ci fosse un ordine in questo periodo della carriera di prince. purtroppo non ne abbiamo alcuna conferma per cui, come ho detto all’inizio, avete appena letto un sacco di seghe mentali. 
e siamo solo a un quarto della storia.

our destiny/roadhouse garden:

splash:



in a large room with no light:



empty room:


ii: dream factory

‘dream factory’ sarebbe stato l’ultimo disco di prince coi revolution, se fosse mai esistito. l’ipotesi più accreditata è che sarebbe stato un doppio, composto in larga parte di brani che sarebbero poi finiti nell’ipotetico ‘crystal ball’ e poi nel reale ‘sign o’ the times’ (sì, prima o poi torneremo alla realtà, promesso). oppure è possibile che nulla di tutto questo fosse vero e si tratti solo di una serie di canzoni che già guardano avanti ad un altro ulteriore progetto o invece non guardano a niente e si sono solo accumulate. 
alla tracklist pare che prince ci fosse arrivato davvero, da questa si evince un disegno generale non distante dall’eterogeneità di ‘sign o’ the times’ (la cui title-track compare proprio qui per la prima volta), con brani di vario genere e suonati da formazioni diverse ma ancora con un deciso contributo dei revolution.

in apertura, ad esempio, sembra che avremmo trovato ‘visions’, un pezzo scritto e suonato dalla sola lisa coleman al piano, che rivela il suo corredo classico ai tasti, un’introduzione soffusa che fluisce nell’intro di ‘dream factory’ (ovvero ‘a place in heaven’ al contrario), pezzo dal groove bestiale e dai suoni strampalati, con un profilo melodico che non sarebbe stato fuori luogo su ‘graffiti bridge’. è un pezzo davvero bello e per fortuna possiamo goderne appieno, grazie ancora una volta al ‘crystal ball’ del ’98.
‘train’ è invece un brano ossessivo, più o meno come sarà ‘it’ ma più pieno, cantato in falsetto funky e accompagnato da eric leeds e atlanta bliss ai fiati.
a seguire troviamo una serie di brani di cui parlerò più avanti quando arriverò a ‘sign o’ the times’, poiché sono qui presentati in versione molto vicina, se non identica, a quella che verrà pubblicata su quell'album: ‘the ballad of dorothy parker’, ‘it’, ‘slow love’, ‘starfish and coffee’, ‘sign o’ the times’, ‘i could never take the place of your man' e ‘the cross’. visto come questi brani sono poi stati pubblicati tutti insieme, viene naturale pensare che sia molto probabile che questa configurazione rappresentasse effettivamente un disco doppio, progettato prima dello scioglimento dei revolution. a questo punto però stupisce che in nessuna configurazione ipotizzata del disco sia mai comparso nessuno dei brani scritti poco prima per ‘roadhouse garden’, svaniti nel nulla. le vie di prince sono (erano) infinite e probabilmente non avremo mai risposta a questi quesiti, quindi andiamo avanti con il più sfrenato onanismo musicologico.
da notare come in mezzo a questi brani si trovi un ‘interlude’ di sola chitarra ad opera di wendy, quasi a voler bilanciare con l’introduzione dell’album di lisa.

‘strange relationship’ ha una storia travagliata, come molti brani di questo periodo. scritta e registrata da prince solista nell’83, viene rielaborata nell’85 da wendy e lisa che sovraincidono effetti di sitar, percussioni e flauti. questi contributi verranno eliminati o soffocati nel mix nella versione su ‘camille’ e ‘sign o’ the times’, questo per minimizzare il contributo delle due revolution nei dischi (che erano fondamentalmente un ritorno di prince da solo in studio). è un pezzo dall’aria piuttosto triste ma dal bounce micidiale, la cui melodia è enfatizzata dai diversi timbri in gioco.
sulle ipotetiche tracklist di ‘dream factory’ compare anche la prima versione di ‘crystal ball', senza le orchestrazioni di clare fischer. è una versione interessante che mostra lo scheletro del brano e le precise intenzioni di prince (qui suona tutto da solo, si aggiungeranno i cori di susannah melvoin e l’orchestra) ma è anche inferiore alla versione completa, teoricamente inserita nel successivo album fantasma e poi pubblicata nel ’98 nell’omonimo triplo. che però è un altro disco. è dura essere fan di prince. ad ogni modo di questo brano tratterò approfonditamente più avanti perché ci tengo particolarmente.

‘a place in heaven’ lascia il microfono a lisa coleman per un 6/8 morbido e vagamente lisergico, con un fastidioso clavicembalo in sottofondo e una melodia dolce, forse fin troppo. invece ‘last heart’ irrompe con tutto il suo minneapolis sound, completamente eseguita da prince con leeds ai fiati e susannah melvoin ai cori, un pezzo che non lascia dubbi sul suo periodo di composizione (non avrebbe sfigurato su nessun disco tra ‘parade’ e ‘lovesexy’), bellissima, un groove che va come un treno e la voce leggera di prince ad anticipare ‘camille’.
‘witness 4 the prosecution’ è un viaggio nel funk più zozzo, basso profondo, fiati, hammond, cori e tutto quello che serve. è uno dei brani inediti più amati dai fan ed è facile capire perché, da sola vale più della maggiorparte della produzione anni ’90 del nostro, avrebbe sicuramente meritato un posto almeno su ‘graffiti bridge’ al posto di qualche ‘love machine’ a caso.
‘movie star’ è un pezzo divertente, scritto per morris day dei the time. ancora funky ma più sottile e sexy di ‘witness’, solcato dallo spoken word di prince, un racconto di night club, donne e altri cliché assortiti, molto divertente. (se ci sono fan dei pain of salvation: nulla mi toglierà dalla testa che gildenlow avesse in mente anche questo brano quando ha costruito mr. money su ‘be’)
della beatlesiana ‘all my dreams’ abbiamo discusso nella recensione di ‘parade’, pare ci fosse l’intenzione di includerla in chiusura di ‘dream factory’, forse no, forse non importa visto che questo progetto sembra sia durato solo un attimo, se mai è successo. 
infatti, poco dopo...

visions/dream factory:

train:

last heart:

movie star:


iii: camille

infatti, poco dopo, “ciao ciao revolution!”. 
come qualcuno ha detto (matt thorne in ‘prince’, gran bel libro, consigliato), da un certo punto di vista lì per lì potrebbe essere stato un bene, poiché ha riaperto ogni possibilità sonora davanti a prince; oggi si potrebbe dire che se si fosse trovato un compromesso, una 'relazione aperta' come quella di neil young coi suoi crazy horse, probabilmente avremmo visto ancora dei gran dischi. il livello degli album di prince resterà ancora altissimo per almeno altri tre anni ma il crollo che avverrà nei primi ’90 avrebbe potuto trovare nuove vie di sfogo con la vecchia band. e vabbè.

quello che invece è successo a questo punto è che prince si è rinchiuso in studio ed ha registrato una serie di canzoni che sfruttavano una tecnica sperimentata prima su ‘erotic city’ e poi su ‘crystal ball’: i nastri con le voci venivano accelerati, modificando così il tono della voce stessa e dando vita a camille, l’alter ego femminile di prince, nonché il titolo del disco mai pubblicato. questa volta però ci sono prove concrete dell’intenzione di prince di portare questo materiale fuori dallo studio, solo che la sua proposta alla warner pare sia stata peculiare: pubblicare il disco con il nome camille in copertina, senza alcun riferimento a prince da nessuna parte. o forse non è andata così e semplicemente non era soddisfatto di com’era venuto il disco. del resto nello stesso identico periodo vengono scritti anche i pezzi del ‘black album’, altra leggenda da tramandare (anche se ormai più sbiadita, vista la pubblicazione del disco nel ’94) e altro disco di cui prince si è dichiarato insoddisfatto.
l’ispirazione per l’idea della voce pare sia arrivata dalla lettura dei diari di herculine barbin, ermafrodita di metà ‘800 soprannominato camille, i cui scritti ebbero diffusione proprio negli anni ’80.
ad ogni modo, i pezzi dell’album sono stati tutti pubblicati successivamente, in vari momenti e formati, per cui ‘camille’ è facilmente ricostruibile (e ancora una volta, se vi procurate ‘work it’ potete ricostruirlo con le versioni intese appositamente per quel disco) (no, non lo fate, ‘work it’ è il male, la vostra vita non potrà mai più vivere, state lontani).

‘rebirth of the flesh’ è stata pubblicata in mp3 dall’npg music club in una versione live dell’88, purtroppo inferiore alla versione in studio. è un brano in bilico tra funk e dance, piuttosto oscuro sebbene molto melodico che però definisce bene il clima ambiguo del disco, incarnato poi nel capolavoro ‘housequake’, qui presente nella versione che finirà poi su ‘sign o’ the times’, così come ‘strange relationship’ e ‘if i was your girlfriend', per cui se ne riparla quando sarà il momento.
‘feel u up’ (pubblicata nell’89 come b-side di ‘partyman’ dalla colonna sonora del primo batman di burton e poi nel ’93 sul terzo cd di ’the hits/the b-sides’) risale all’81, registrata all’epoca in una versione per nulla lontana da quella considerata qui, solo più grezza. fa il paio con ‘rebirth of the flesh’ giocando con funk e dance, svuotando e riempiendo continuamente il suono in un gioco di sovrapposizioni soprattutto ritmiche. in entrambe le canzoni il tono alieno della voce sposta la percezione del brano in maniera magica, è prince ma non è prince, è una nuova incarnazione che sarebbe lecito aspettarsi abbia bisogno di tempo per esprimersi al meglio mentre qui la sua espressività è già sbalorditiva, riuscendo a passare dal tono dimesso di ‘girlfriend’ a quello aggressivo di ‘rebirth’ o di ‘shockadelica’.
proprio ‘shockadelica’ è stato il primo pezzo ad essere scritto per il progetto; oltre ad essere gustosamente oscuro e abrasivo, è un brano interessante anche per il suo evidente fare i conti con la nuova realtà del rap, senza essere di per sé un brano rap (così come ‘housequake’). la base ritmica in loop, il testo a tratti libero, i suoni usati come samples, sono vari elementi che fanno pensare che prince in questo periodo volesse incorporare elementi di quella nuova forma di black music (lo farà in modo palese negli anni ’90, purtroppo con risultati spesso ridicoli).
‘good love’ è un brano dall’anima più pop che punta già a ‘lovesexy’ con i suoi suoni brillanti e cori esplosivi, pubblicato nel '98 nel cofanetto 'crystal ball'. 
in conclusione al disco troviamo ‘rockhard in a funky place’, unico brano ad avere un credito esterno per la composizione, ovvero eric leeds che ha scritto gli arrangiamenti di fiati suonati da lui medesimo e atlanta bliss. è stata poi pubblicata sul ‘black album’ nel ’94, è una canzone, come dire… cazzuta. asciutta ma diretta in faccia, nonostante i mille fronzoli vocali svolazzanti, marchiata da un assolo di chitarra fantastico che segue in una sezione di fiati incredibile.
inoltre in questo periodo viene prodotta la terza versione di ‘witness 4 the prosecution’, non si sa se per questo progetto o meno, fatto sta che è un pezzo diverso dalle versioni precedenti, vede il solo prince cantare su una base scura e acida senza più tutti i contributi dei revolution, una vera dichiarazione di intenti. la voce non quella di camille ma è più sottile del solito e sembra tendere in quella direzione, così come l’arrangiamento che ricorda le idee di ‘rebirth of the flesh’.

la grossa differenza tra ‘camille’ e i dischi più o meno fantasma che gli stanno attorno è che questo disco ha evidentemente una sua coesione, una forma, un inizio ed una fine. sicuramente la scelta della voce filtrata aiuta a tenere insieme il tutto, creando un concept che magari qualcuno potrà trovare fin troppo marcato ma rappresenta anche uno dei vertici della creatività e capacità espressiva di prince.
è un peccato che non sia mai stato pubblicato in questa forma ma è anche vero che, se fosse successo, oggi avremmo un ‘sign o’ the times’ diverso. chissà. mentre anche questo progetto naufragava insieme al 'black album’, nel buio iniziava a brillare la sfera di cristallo.

rebirth of the flesh:

rockhard in a funky place:

good love:


iv: crystal ball

‘crystal ball’ è un disco triplo inedito di prince. ma no, dice, l’ha pubblicato nel ’98. no, si chiama crystal ball anche quello, è triplo ma è un’altra roba. quindi è una versione embrionale di ‘sign o’ the times’? embrionale un paio di palle (di cristallo, si intende), contiene l’intero album ‘sign o’ the times’ tranne ‘u got the look’, più altri 7 pezzi, uno dei quali di più di 10 minuti. se il suo illustre successore è un doppio, ‘crystal ball’ sarebbe stato triplo e proprio per questo venne rifiutato dalla warner, troppe le complicazioni per pubblicare questo mostro, quindi prince tornò poco dopo con la nuova versione ridotta a doppio disco e con il nuovo titolo.
dei 7 pezzi aggiunti, 4 provengono da ‘camille' (‘rebirth of the flesh’, 'rockhard in a funky place’, ‘shockadelica’ e ‘good love’), uno da ‘dream factory’ (‘crystal ball’, nella sua versione completa) e due sono nuovi (‘the ball’ e ‘joy in repetition’). 

è difficile per me dire quale sia la mia canzone preferita di prince ma ci sono buone possibilità che se mi puntassero una pistola alla testa per avere una risposta, risponderei ‘crystal ball’. si può tranquillamente dire che sia la sua canzone più vicina al progressive rock, coi suoi 10 minuti (più o meno abbondanti, a seconda della versione) di evoluzioni, cambi di umore e sezioni strumentali. è una prova di composizione incredibile, riesce a far stare insieme funky, rock, orchestrazioni classiche vertiginose, momenti di vuoto inaspettati, il tutto con un trasporto torrenziale ma senza mai perdere il controllo. dall’iniziale, semplicissima cassa a morto alle complesse sezioni centrali, è un vero e proprio catalogo delle possibilità compositive di prince senza freni, con un profilo melodico estremamente preciso che affascina, complice la scelta di interpretare il brano con la voce aliena di camille. è una canzone formalmente perfetta, come dovrebbe essere una sfera di cristallo: più vi si guarda in profondità, più si notano particolari e sfumature diversi a seconda di dove si concentra l’ascolto.
‘the ball’ verrà scartata nella sintesi di ‘sign o’ the times’ ma, rielaborata e con testo diverso, diventerà ‘eye no’, ovvero il primo brano di ‘lovesexy’. interessante la parte centrale che unisce esulti rap e chitarre in reverse anni ’60 in un’atmosfera festosa ma non rilassata. qui la coda finisce direttamente nell’altro brano nuovo, ‘joy in repetition’. è una litania straniante, la storia di una canzone lunga un anno, interpretata da prince in una delle sue prove più emotive, sia alla voce che alla chitarra, protagonista di un solo eccezionale nel finale. verrà poi pubblicata su ‘graffiti bridge’ in questa versione, solo nettamente ripulita nei suoni. è un’altra di quelle canzoni che reputo al vertice della produzione di prince, sicuramente nella mia top 5 personale.

qui vengono introdotte anche ‘play in the sunshine’, ‘forever in my life’, ‘it’s gonna be a beautiful night’ e ‘adore’, intitolata ancora ‘adore (until the end of time)’, tutte nella versione che finirà su ‘sign o’ the times’ o comunque molto vicine. questo rende l’idea della prolificità compositiva di prince in questo periodo, capace di scrivere pezzi uno più bello dell’altro in quantità francamente imbarazzanti per chiunque altro. con tutti i problemi, le rotture, le crisi di questo periodo, è impossibile negare che tra l’85 e l’86 prince abbia avuto un’esplosione artistica che ha ben pochi simili nella storia della musica leggera, se ne ha (non dimentichiamo che durante questi due anni escono 'around the world in a day', 'parade' e il film 'under the cherry moon', viene registrato il materiale di 'the flesh' e del primo disco dei madhouse e intanto si svolge il tour di 'parade'). non è solo questione di quantità ma ovviamente anche di qualità, parliamo di canzoni che o sono state singoli di successo mondiale o fanno parte di uno dei dischi più riveriti degli anni ’80 oppure sono roba come ‘crystal ball’, ‘rebirth of the flesh’ o ‘joy in repetition’. non era concorrenza sleale, semplicemente non poteva esserci concorrenza.

crystal ball:

joy in repetition (live):

the ball:



spero di non avervi annoiato troppo, ora forse sapete qualcosa in più sul periodo più misterioso della carriera di prince, uno dei più confusi ma anche il più prolifico e qualitativamente elevato. se frugate un po’ in giro trovate tutto (soulseek può esservi molto amico), ascoltate e fatevi anche voi un’idea, tra qualche giorno parliamo di ‘sign o’ the times’.