martedì 22 agosto 2017

steven wilson, 'to the bone'



abbondano le contraddizioni in ‘to the bone’, quinto album solista di steven wilson, dopo il deludente e forzato ‘hand.cannot.erase.’. saltiamo le presentazioni che tanto non servono più, la prima contraddizione sta già nel titolo, il quale dovrebbe riferirsi ad una ricerca di essenzialità, un andare al nucleo dell’arte di wilson; di questo non c’è invece nessun parallelo nella musica, sovrarrangiata, super-prodotta, dalla scrittura rifinita ed elaborata.
un’altra contraddizione è come wilson stesso ha presentato il disco, parlando di un album pop e pubblicando il singolo di ‘permanating’ come anticipazione. non è un disco pop, lo è in alcuni momenti e non è nulla che non abbiate già sentito in un disco dei blackfield o su ‘stupid dream’. ‘permanating’ è un pezzo pop mediocre che gioca con citazioni palesi e cassa in quattro ma alla fine gira su se stesso e risulta anche fuori luogo nell’economia del disco.

‘to the bone’ quindi. essenzialità. curioso notare allora come su 11 canzoni almeno 4 potessero essere lasciate fuori: una a scelta fra la title-track e ‘nowhere now’ (due rimaneggiamenti del suono di ‘stupid dream’, gradevoli quanto inutili), l’agghiacciante ‘pariah’ (forse il peggior pezzo mai scritto da wilson, di una banalità e prevedibilità sconfortanti), ‘the same asylum as before’ e ‘blank tapes’. ma potrebbero stare in questo elenco anche ‘detonation’, inutile rigurgito prog posticcio e freddo, quanto ‘song of unborn’, pacchiana, pesante e retorica.
cosa si salva dunque in tutto questo? ‘refuge’, che mette in bella mostra l’influenza dei talk talk di ‘the colour of spring’ o ‘spirit of eden’, ‘people who eat darkness’, un bel pezzo scuro e tirato e ’song of i’, fantasiosa nell’arrangiamento e riuscita nell’atmosfera. 
ma anche qui si trova un problema, simile a quello di ‘the raven that refused to sing’: come in quel disco si potevano individuare chiaramente le influenze sparse in giro, si può fare altrettanto qui. a partire dall’autocitazionismo dei primi due pezzi, abbiamo nomiato i talk talk per ‘refuge’, poi c’è la citazione degli abba in ‘permanating’, poi la riuscita ‘song of i’ non tenta nemmeno di camuffare l’influenza del primo peter gabriel solista, l’alone teatrale di kate bush aleggia su vari brani, la malinconia dei primi due dischi dei tears for fears fa capolino dalle strofe più scure… è un po’ un ‘indovina chi’ musicale, anche nei suoi momenti migliori.

è meglio del suo predecessore ma proprio di poco, è un disco che non ha un focus chiaro e alla fine dell'ascolto risulta confuso e senza una direzione precisa. certo, suona in maniera pazzesca, mix e mastering sono di una limpidezza e dinamica impressionanti, su questo non si può discutere, così come sulla padronanza tecnica dei musicisti coinvolti (il suono di batteria di jeremy stacey spazza via ogni memoria di minnemann all’istante). resta l’antica questione relativa a tutta la carriera solista di wilson: chiama dei mostri a suonare e poi si ostina a cantare lui stesso, la cui voce mina pesantemente alcuni brani di ‘to the bone’ (il momento peggiore è il ridicolo falsetto in ‘the same asylum as before’) e risulta monotona e pesante. il fatto che la controparte femminile ninet tayeb abbia lo stesso identico problema timbrico (pesantezza e monotonia) non aiuta affatto le canzoni.

il problema del disco non è che è un disco pop, è che non lo è, ci si butta in qualche momento ma poi resta nella safe zone wilsoniana, non osa, non offre nulla che non abbiate già sentito se conoscete la sua discografia. in più i momenti più pop coincidono con quelli mento riusciti del disco, mostrando come la melodicità dell’inglese abbia oggi dei problemi a evolversi e adattarsi. probabilmente voleva fare un disco ibrido, proprio come il citato 'the colour of spring' o 'melt' di peter gabriel, non si capisce bene se gli sia mancata l'ispirazione o se semplicemente non gli sia riuscito il disco.

non è una stroncatura come per il disco precedente, purtroppo comunque bocciato. alla prossima steven, forse.