lunedì 26 giugno 2017

alice in chains, 'alice in chains'



‘alice in chains’ uscì nel 1995, a tre anni di distanza dall’esplosione di ‘dirt’, ed è in molti modi avvicinabile concettualmente a ‘in utero’ dei nirvana: rispetto al disco precedente la produzione è sporca e ruvida, i pezzi sono più ostici e l’approccio del gruppo è credo e live. dove però ‘in utero’ appesantiva il suono dei nirvana, ‘alice in chains’ depura la band di seattle dalla superproduzione di ‘dirt’ ed esalta il versante marcio e putrescente degli alice in chains mantenendoli però costantemente su binari rock, molto meno metal di ciò che è successo prima e dopo.
il profilo melodico dell’album approfondisce la parte malsana e grigio-verdastra del gruppo, quella che deriva da pezzi come ‘dirt’, ‘would?’ o ‘love, hate, love’, facendo ampio uso di armonie vocali dissonanti ed oblique. è stato detto da qualcuno che questo tipo di arrangiamento sarebbe stato obbligato dalle pessime condizioni in cui versava layne staley: l’uso di fitti layer di voci coprirebbe le sue mancanze. che questo sia vero o meno importa davvero poco, il risultato è così strabiliante che se anche fosse andata così sarebbe un caso di problema fortunato. non c’è dubbio sul fatto che staley fosse quasi un relitto in quel periodo, talmente perso nei meandri dell’eroina da far saltare due tour (quello già programmato di ‘jar of flies’ prima, quello del disco in questione poi). se questo abbia o meno fatto del male anche al disco… parliamone. in un disco angosciante, disperato, marcio e duro, il fatto che i testi deliranti siano cantati da un eroinomane a fine corsa non è forse così fuori luogo.

‘alice in chains’ è un disco che mette a disagio l’ascoltatore e fa ben poco per farsi amare. a partire dal mix acido e abrasivo, sadicamente sbilanciato sulle medie, passando per il suono di batteria quasi lo-fi ed arrivando ai riff neri e appiccicosi di cantrell su cui vengono forzate le linee vocali, c’è ben poco di accomodante qui dentro. nonostante ciò, è difficile non far cadere la mascella quando dopo il martellamento di riff e strofa di ‘grind’ si apre il ritornello in maggiore, luminoso e confortante, prima di gettare tutto di nuovo nel baratro. va ancora peggio con ‘brush away’: il pezzo si presenta con un arpeggio liquido che sembra fare l’occhiolino a ‘facelift’, poi arrivano le voci con una nenia paranoica e lontana, poi il ritornello si inasprisce e fa cedere ogni aspettativa, è un pezzo squisitamente figlio degli anni ’90 che colpisce in pieno stomaco.
non amo parlare di un disco pezzo per pezzo ma non si può non parlare un attimo della seguente ‘sludge factory’. almeno come titolo è sicuramente il brano più rappresentativo del disco, musicalmente poi è probabilmente il migliore: come in ‘grind’ si alternano strofe cupe e dure a un ritornello aperto e melodico, qui però il riffing è ancora più pesante, la ritmica lenta e asfissiante, la voce quasi trasandata e il finale è un gioiello di paranoia novantiana. se cambiaste i suoni con una produzione moderna e compressa trovereste la matrice di tutto quello che il gruppo ha poi fatto con william duvall.
questi tre brani danno l’impronta a quasi tutto il resto del disco, ad esclusione giusto delle due ballate ‘heaven beside you’ e ‘shame in you’, con la prima a svettare grazie ad un’illusoria pace che, dopo il ritornello, viene lacerata da bordate elettriche strazianti. da citare almeno anche ‘again’, dura e spigolosa, con il sublime contrasto del bridge fra chitarre marce e urlate e un ‘doo-doo’ in falsetto appiccicato sopra, e ‘god am’, dal ritornello disperato contrapposto alla strofa rigida e matematica.
chiude il tutto ‘over now’, asciutta e distante prima di sciogliersi in un finale liquido e malinconico, gli ultimi secondi della storia classica degli alice in chains.

layne impiegherà ancora 7 anni prima di riuscire ad autodistruggersi definitivamente (trovato il 5 aprile del 2002 sul divano davanti alla tv statica, davanti a lui le pipette per il crack e un montagnola di coca, pare pesasse 39 kg). da lì in avanti sarà una storia diversa, prima i solisti di cantrell, poi la reunion con duvall e il nuovo suono.

‘dirt’ rimane probabilmente il miglior punto di partenza e il simbolo del suono degli alice in chains ma ‘alice in chains’ è l’apice della loro poetica e la rappresentazione più fedele della loro arte, un tassello imprescindibile del rock degli anni ’90.