domenica 28 agosto 2016

talk talk, 'spirit of eden'/'laughing stock'



il termine “avanguardia” viene spesso usato a sproposito. l’assurdo è che un’avanguardia non è di fatto definibile nel momento in cui nasce ma solo a posteriori, quando e se si rivela effettivamente come tale: deve aver segnato una strada che poi altri abbiano percorso, se no è solo un vicolo cieco.
credo che nessuno al mondo avrebbe mai pensato di affibiare questo termine alla musica dei talk talk fino al 1988 e da allora son dovuti passare almeno 10 anni prima che quei due dischi, ‘spirit of eden’ e 'laughing stock’, rivelassero i mille flussi che da loro si erano creati.
un gruppo synth-pop con singoli di successo come ‘such a shame’ o ‘it’s my life’ si reinventa in una sorta di art-pop raffinatissimo con ‘the colour of spring’ per poi esplodere in una creatività straripante e contemplativa allo stesso tempo in un finale di carriera che ha ben pochi eguali nella storia della musica “leggera”.
i due dischi vivono ognuno la sua vita ma sono comunque molto vicini per approccio e impianto compositivo. in comune hanno un senso di pace, uno sguardo fisso sull’orizzonte malinconico ma positivo e la capacità di guardare al futuro con una naturalezza che lascia a bocca aperta, oltre all'utilizzo musicale del silenzio, col quale la musica interagisce in vari modi.

‘spirit of eden’ è il primo, 1988. ufficialmente i talk talk sono mark hollis (voce, piano, hammond e chitarra), paul webb (basso) e lee harris (batteria) ma di fatto tim friese-greene è il loro george martin e anche più: al disco contribuisce con harmonium, piano, organo e chitarra oltre alla composizione e registrazione di tutti i brani con hollis e alla produzione.
la scrittura dei pezzi sfrutta la metodologia di 'bitches brew': ore di materiale improvvisato vengono editate dai due in studio e sopra vengono scritte melodie ed arrangiamenti per gli ospiti (in totale suonano 16 musicisti e un coro sull’album). la prima facciata del disco si svolge come una suite, nonostante siano distinte tre tracce come tre movimenti mentre i tre brani della seconda facciata hanno identità un poco più distinte.
la prima cosa che salta all’orecchio è l’uso strabiliante che il gruppo fa delle dinamiche: da vuoti quasi totali si passa ad esplosioni di luce inaspettate che travolgono l’ascoltatore, un trucco che da qui i mogwai hanno imparato molto bene. generalmente l’atmosfera è distesa, con grande respiro ed elegantemente punteggiata dagli interventi di fiati onirici che ricordano il david sylvian più poetico di ‘secrets of the beehive’ (e non verranno dimenticati dagli ulver di ‘shadows of the sun’). sopra alle tessiture sonore fluttua la voce di harris, drammatica, espressiva, profondamente umana nell’essere fragile e quasi persa in questo mare di suoni, un cantante troppo spesso ingiustamente dimenticato o sottovalutato (per certi versi anticipa la poetica alienata di thom yorke, incluso l’uso espressivo di una faccia… particolare).
nel procedere del disco ci si trova ad ascoltare la rarefazione dei sigur ros, la dilatazione cristallina dei bark psychosis, la classicità dei godspeed you black emperor, le chitarre jangle dello shoegaze. praticamente tutto quello che negli anni successivi è stato etichettato come “post” nel rock è partito o da qui o da ‘spiderland’ degli slint (che è sì successivo ma arriva da una strada completamente diversa (l’hardcore, i fugazi) ed esplora quindi le conseguenze più marce e disturbanti di questo suono).
i brani della seconda facciata, come già detto, sono più distinti e tornano un po’ in direzione di una forma più definita, pur mantenendo la sospensione ed il respiro della suite. ‘i believe in you’ fu anche pubblicata come singolo in un edit di meno di 4 minuti per il quale fu girato persino un video abbastanza fallimentare, come a ribadire che questi sono album da assimilare in toto e non certo riproducibili alla radio. il pezzo è effettivamente il più “canzone” del disco e ricorda da vicino alcuni momenti di ‘the colour of spring’ prima del fade out che accompagna nella conclusiva ‘wealth’, ballata profondamente spirituale per voce, piano e hammond che poggia morbida sul silenzio, uno dei grandi protagonisti del disco. qui il silenzio viene usato in molti modi, dal contrasto dinamico con le esplosioni alle drammatiche sospensioni delle cadenze, da linee melodiche interrotte ai respiri di hollis tra una frase e l'altra, il silenzio è uno strumento come gli altri nelle mani del gruppo ed è sotteso ad ogni momento della loro musica.

impossibile ed insensato riprodurre un disco del genere dal vivo e infatti non ci fu nessun concerto di supporto. anzi, non ci fu proprio più nessun concerto visto che da qui alla fine i talk talk furono un progetto da studio di hollis e friese-greene: da giovani canzonettari trascinatori di folle a raffinati ed eleganti topi di studio, quanti altri gruppi hanno fatto una cosa del genere?

‘laughing stock’ arriva invece nel ’91 e da un lato conferma la strada intrapresa con ‘spirit of eden’ ma dall’altro ne offre una lettura diversa, un pelo meno rarefatta e a tratti più meccanica, lambendo territori che verranno poi ampiamente esplorati da gruppi come tortoise o portishead. 
in generale il disco torna ad una maggiore ritmicità, almeno più costante e fa meno uso dei chiaroscuri dinamici estremi che caratterizzavano ‘spirit of eden’, oltre a puntare di più sulle singole composizioni come finestre su punti diversi di un panorama, senza il formato suite. questo non vuole certo dire che sia un disco disomogeneo ma risulta più definito ed un poco meno aperto del suo predecessore. ritroviamo le improvvisazioni editate e la folla di ospiti (in tutto questa volta 17 musicisti), resta l’espressività unica di hollis che appare più perso, distante, a tratti quasi rassegnato, rimane il silenzio di fondo a dare una profondità pazzesca al suono.
se l'inizio quieto e dimesso di 'myrrhman' non sorprende è solo perché c'è già stato 'spirit of eden' ma questo non toglie niente all'incredibile poesia del pezzo che gioca con armonie oblique e interventi lunari di fiati e archi. ‘ascension day’ è l’episodio più movimentato e percussivo, con un finale che alza al massimo dinamica e pathos dopo che la tensione si è accumulata per l’intero brano, magistrale. il finale di ‘taphead’ è invece ossessivo e sottopelle come lo sarà il trip-hop, pur non facendo uso di elettronica. la conclusiva ‘runeii’, l’ultima canzone dei talk talk, è la logica conseguenza di ‘wealth’, ancora più dilatato, con la voce di hollis complementata ora dalla chitarra, ora dal piano e un commovente hammond che va e viene il vento.
se c’è meno da dire su questo album è solo perché la vera rivoluzione era già stata fatta da ‘spirit of eden’, ‘laughing stock’ ne riprende il modus operandi e lo esplora per variazioni sonore. troviamo molti momenti marcatamente malinconici e desolanti che anticipano quello che faranno i low e gli altri definiti ‘slo-core’. un sacco di definizioni, un sacco di gruppi e ognuno di loro ha esplorato un aspetto del suono dei talk talk ma loro avevano già tutto questo, assimilato, controllato e perfettamente focalizzato.
lo stesso fatto che si siano usati così tanti nomi per definire la musica del gruppo fa capire quanto questa sia difficile da inquadrare o descrivere. ha dei precedenti, in alcuni momenti si può  pensare alla scuola di canterbury di fine ’60, al già citato sylvian, alle atmosfere di jon hassell o a certi album dell’aacm di chicago; si potrebbe addirittura tirare in ballo l’idea del third stream, se solo gli ingredienti del suono talk talk non fossero così tanti: la teoria del third stream lo voleva a metà tra jazz e classica, qui ci sono anche almeno il rock e il pop e tutto è mischiato con tale maestria e naturalezza che non lo si sente mai sbilanciato in alcun modo, è una musica totale e libera.

dopo questo disco il gruppo si scioglie e ognuno va per la sua strada: harris e webb si ritrovano negli ottimi o’rang coi quali incidono due dischi che proseguono il discorso iniziato tramite improvvisazioni editate su cui poi sovraincidono voci e strumenti vari (molto consigliato il primo, ‘herd of instinct’); friese-greene si è dato a una poco interessante carriera solista come heligoland, pubblicando un paio di dischi purtroppo dimenticabili. mark hollis invece si è ritirato dalla musica per stare con la famiglia, ha pubblicato solamente un disco solista omonimo nel ’98 che offre una versione più “cantautoriale” degli ultimi talk talk, molto piacevole e ovviamente ben fatto.


avanguardia è una parola difficile, soprattutto in tempi in cui mode e suoni cambiano ad una velocità insostenibile. l’arte e la creatività però trascendono tutto questo e si piazzano su un piano superiore, quello della libera espressione e del sentire umano e i talk talk sono stati esattamente questo, un’esplosione inaspettata di creatività, intelligenza ed espressività. il suono con cui hanno materializzato tutto questo è andato poi a fare scuola, è stato dissezionato, è stato etichettato ma di fatto quello che i talk talk hanno creato non è rock, non è post-rock, non è pop, non è jazz, non è classica, è una sola cosa: arte. non capirlo e volerla inquadrare è uno sbaglio e un’offesa nei suoi confronti.