martedì 24 maggio 2016

katatonia, "the fall of hearts"



la carriera dei katatonia è costellata di dischi stupendi, fra i quali trovano posto almeno 3 capolavori che sono l’apice delle varie fasi: ‘brave murder day’, ‘last fair deal gone down’ e ‘night is the new day’. in mezzo a questi, di dischi brutti non ce n’è mai stati; si può parlare dell’ingenuità di ‘dance of december souls’ o ‘discouraged ones’ ma non si dimentichi che erano dischi in cui gli svedesi o stavano iniziando (il primo) o stavano provando cose nuove (il secondo).
nel 2016 assistiamo all’uscita del primo disco pacco della carriera dei katatonia. bruttino, prolisso, già sentito, poco a fuoco e piuttosto moscio e inutile.

la tendenza generale dell’album è la seguente: le parti metal sono ancora più metal, le parti non metal sono semiacustiche o elettroniche, queste sono le due dinamiche impiegate più o meno per l’intero album. il problema si aggrava quando le parti metal vogliono spingere sulla parte “prog”, più o meno alla maniera dei vecchi opeth, peccato che il risultato sia solo che queste parti suonano vecchie, vecchie, vecchie, stantie, già sentite, già esplorate. gli arrangiamenti non si fanno notare per particolare dinamica o cura, piuttosto arriva ad innervosire il continuo uso di sestine o terzine come unica variazione: si infilano in quasi tutti i riff distorti e sono l’unica modulazione ritmica che succede nei brani (e succede in metà dei brani). 
 ma è anche vero che questi paciosi nordici non hanno mai inventato dal nulla, la loro forza è la loro poetica personale con cui hanno sempre ammaliato l’ascoltatore. il suono che culla c’è, purtroppo questa volta mancano dei veri agganci melodici che si facciano ricordare, mancano ritornelli ficcanti, mancano idee precise alla base dei pezzi e, ancora peggio, manca una vera identità delle canzoni che si susseguono senza cadute eccessive ma anche senza nessuno sbalzo.
la formazione è cambiata ancora, ora nystrom si occupa di tutte le chitarre e alla batteria è arrivato daniel moilanen, ahimè altra nota dolente: freddo, senza mordente, un suono scarso anzichenò e assolutamente privo di quella ritmicità convulsiva e propulsiva che aveva invece liljekvist, arma “segreta” della band per molti anni.
non ho purtroppo da segnalarvi canzoni che spicchino nel bene, ne ho invece (purtroppo, di nuovo) in negativo: ‘takeover’ è la peggior apertura di tutta la discografia (ed è uno dei pezzi migliori del disco), ‘decima’ frantuma i maroni come faceva “damnation”, ‘serac’ si trascina per sette minuti e mezzo di pseudo-prog insipido, ‘passer’ è una smetallata che puzza di 2000-2005. 

detto tutto questo, in ogni caso darò ancora possibilità al disco per cui sai mai, non sorprendetevi se vedrete comparire una seconda recensione che smentisce tutto questo. per ora bocciati per la prima volta in 23 anni.

domenica 1 maggio 2016

r.i.p. prince rogers nelson



non è sempre facile separare l’artista dall’essere umano che ci sta dietro. se devo sforzarmi di trovare un lato positivo nella morte di uno dei 2 o 3 più grandi artisti degli ultimi 40 anni questo sarebbe proprio il fatto che ora, non essendoci più l’umano, è rimasto solamente l’artista. siamo liberi dal dover far finta di nulla davanti a capricci e cazzate. il prezzo da pagare è però di quelli davvero pesanti: non poter mai più vedere prince dal vivo è una cosa orribile.
quando dico “uno dei più grandi” non lo dico a caso. michael jackson aveva un intuito melodico pazzesco e una capacità di arrangiamento incredibile ma poi aveva bisogno di musicisti che gli suonassero i dischi, prince no. lo stesso dicasi per il genio rivoluzionario di ray charles o di james brown, senza il quale prince di certo non avrebbe potuto fare ciò che ha fatto. l’unico a cui lo si può davvero avvicinare è stevie wonder, col quale aveva più punti in comune, dall’essere polistrumentista ad aver fatto suo uno stile che fondeva mille generi diversi in un solo pentolone. su questo aspetto però prince si è spinto ancora più in là, la sua musica ha veramente toccato ogni confine, sempre con una libertà e una naturalezza che dubito verranno mai eguagliati.
la stessa naturalezza con cui si è sempre preso gioco di tutti, a partire dai giornalisti, categoria da lui non proprio ben vista (vedasi la geniale trollata del simbolo impronunciabile, in bilico tra capriccio da primadonna e dito medio al mondo). il risultato è che si sa poco e un cazzo della vita di prince e c’è almeno una chiave di lettura che potrebbe non dico giustificare ma almeno spiegare molte delle sue scelte (infanzia difficile, isolazionismo, fama da giovane e conseguente sfruttamento da parte del business, non escludo che diventare testimone di geova per un periodo possa avergli salvato la vita anni fa).
poi però mettiamo su sign 'o’ the times e nulla di tutto questo importa più.

usiamo troppo e a sproposito la parola “genio”, senza pensare bene a ciò che vuol dire e ciò che comporta. l’artista che se n’è andato, chiamiamolo di nuovo prince o come ci pare, ormai poco importa, era un Genio e la musica tutta dovrà essergli riconoscente per sempre, tanto quanto a ray charles, miles davis o beethoven.