lunedì 25 maggio 2015

the mars volta, "amputechture"


partiamo dalle ovvietà: 'amputechture' è un disco pesante, densissimo, in continuo movimento e con pochissimi appigli per l'ascoltatore casuale. è indubbiamente il disco più enciclopedico e sfiancante della carriera dei mars volta, che comunque non si sono mai distinti per particolare leggerezza o approcciabilità.
ora che ho fatto scappare la maggiorparte dei lettori, vi parlo di questo disco.
i due sciroccati di el paso arrivavano all'epoca da una doppietta subito incensata (assolutamente a ragione) da pubblico e critica: sia 'de-loused' che 'francis the mute' sono due album pazzeschi, ognuno a modo suo. interessante notare come già 'francis' prendesse i concetti del primo disco e li ampliasse a dismisura, riuscendo a creare un labirinto ritmico e melodico (non tanto armonico) in cui è stupendo perdersi; certo, poi la fruibilità dell'album era minata da quei circa 15-20 minuti di troppo che si concretizzavano in svarioni noise interminabili che di continuo interrompevano il treno della musica.
in 'amputechture' questo non succede, sono 76 minuti esatti tutti suonati dall'inizio alla fine, un flusso infinito di idee, atmosfere, cambi repentini, un vero e proprio tour de force come pochissimi riuscirebbero a fare.
non nascondo che mi ci sia voluto molto tempo prima di riuscire ad apprezzarlo: comprato nel 2006 quando uscì, sento oggi (quasi dieci anni dopo) di riuscire finalmente a godermelo pienamente, tanta è la mole di materiale messo in tavola.
questo è l'ultimo disco della formazione "storica" della band, ovvero l'ultimo con jon theodore alla batteria, la cui assenza si farà notare non poco negli episodi successivi: thomas pridgen è sicuramente un musicista pazzesco, con una tecnica folle e un senso del ritmo incredibile ma ha sempre avuto la tendenza a complicare ancora di più parti che già di per sé erano intricate mentre theodore, col suo stupendo modo di portare il tempo e una fisicità tutta groove e john bonham, riusciva a tenere a terra gli svolazzi di rodriguez-lopez rendendo i brani curiosamente ballabili e scapocciosi. alla fine son gusti ma secondo me theodore riusciva a dare un'equilibrio che il gruppo non è più riuscito ad avere fino al canto del cigno 'noctourniquet'. mi piacerebbe parlarvi dei pezzi uno a uno ma 1) scriverei un papiro infinito e 2) non servirebbe veramente a una fava: è un disco da farsi in endovena dall'inizio alla fine, contro cui vi verrà masochisticamente voglia di sbattere la testa per riuscire a trovare un filo da seguire. quando e se ce la farete vi troverete ricompensati da un trip che non ha paragoni, nemmeno nella loro discografia (non è una questione di qualità, è che proprio così non l'han più fatto). 

probabilmente se dovessi tirare fuori un paio di titoli questi sarebbero "tetragrammaton" e "viscera eyes", la prima perché, subito dopo l'introduzione (di 7 minuti) "vicarious atonement", mette bene in chiaro tutto l'apparato dell'album: chitarre schizofreniche svolazzano insieme alla voce, la quale quando esce dall'isteria tira fuori linee melodiche meravigliose che non si staccano più dalla testa, l'hammond di ikey owens (rip, sigh) fa da collante invisibile ma quando lo noti capisci il suo fondamentale apporto nel dare spazio e respiro ai pezzi, mentre su tutto svetta la sezione ritmica inarrivabile del già citato theodore con quella macchina del groove che è juan alderete, solido ed inaffondabile coi suoi giri mantiene il focus sempre centrato anche nei momenti più deliranti. il pezzo non dà tregua e per quasi 17 minuti continua a mutare forma, colore e suono cavalcando a suon di tempi dispari, obbligati e cambi improvvisi che tolgono il fiato. (capite perché dicevo che è un disco pesante?)
"viscera eyes" invece mostra il lato più groovy/rock del gruppo, con un riff devastante ed un ritornello incredibile in cui l'enfasi continua a crescere grazie anche all'apporto dei fiati, presenti in buona parte del disco. 
menzione dovuta anche per "asilos magdalena", oasi acustica in mezzo al disco che spezza perfettamente la tensione con un magistrale uso di melodie ed accordi sospesi, radicati nel bellissimo suono dell'acustica di lopez e solcato dalla voce profondamente malinconica di cedric che canta l'intero pezzo in spagnolo.

è pressoché impossibile definire la musica dei mars volta. certo, parlando per grandi linee possiamo dire che è progressive rock ma sappiamo bene quanto questa definizione sia indicativa di tutto e niente: chiamano prog tanto i magma quanto i dream theater, c'entrano qualcosa gli uni con gli altri? no, un cazzo di niente proprio. la miscela voltiana ha sempre avuto come punto di forza l'unione del lato cerebrale del prog con la fisicità dell'hardcore, insieme a ritmi latini (che qui iniziano però a sparire un po'), un sacco di funk, hard rock, pop, jazz rock e sarcazzo quant'altra roba. se non li conoscete vi sconsiglio assolutamente di partire da qui, insieme a 'bedlam' è indubbiamente il disco meno adatto per cominciare, mentre 'de-loused' o 'noctourniquet' sono decisamente più accessibili (nonché i miei due preferiti). probabilmente questo non è neanche il loro disco migliore ma sicuramente è un caso a sé, anche in una discografia così eterogenea: è esagerato, prolisso, monumentale ed anche un po' megalomane oltre ad essere lungo e pesante ma quando si riesce finalmente ad entrarci è molto difficile uscirne. 

mercoledì 20 maggio 2015

faith no more, "sol invictus"


18 anni non son pochi per nessuno. nemmeno scott walker, che col suo ritmo di pubblicazione può fare invidia al ciclo delle ere del mondo, è mai arrivato a tanto. 
i faith no more invece non si son fatti problemi e, dopo una reunion che li ha portati in giro per il mondo, compreso un indimenticabile concerto qui a milano nel 2009, si decidono a dare un seguito a quel 'album of the year' che ci aveva lasciati con promesse di ulteriori evoluzioni mai intraprese.
nel frattempo è ovviamente successo di tutto, bordin con ozzy, gould e la sua carriera di produttore e fonico, roddy bottum e gli imperial teen, oltre le sue crociate per i diritti degli omosessuali. e, ovviamente, mike patton. da dove cominciare? facciamo così, non stiamo a dirli, tanto li sappiamo tutti; la sua mente malata l'ha portato in qualsiasi angolo musicale esistente, con risultati sì altalenanti ma che quando hanno colpito nel segno hanno saputo farsi ricordare (l'album con kaada, mondo cane e il bellissimo moonchild con zorn), senza dimenticare la sua attività con la ipecac records.
insomma di roba ne è successa e il rischio che i faith no more potessero aver perso quel loro suono unico era molto alto. per fortuna non è successo: 'sol invictus' è un disco della madonna che sembra potersi incastonare tranquillamente nella discografia del combo americano. 

il suono è effettivamente cambiato, andando a pescare liberamente da mondi ad oggi raramente toccati dal gruppo, come quello wave degli anni '80; ma del resto sappiamo bene che non ci sono mai stati due dischi uguali dei faith no more e 'sol invictus' non fa eccezione.
la base rimane quella che conosciamo, quel rock così assurdamente obliquo, sempre lì lì per diventare qualcos'altro ma senza mai realmente superare la linea: c'è del metal ma non è un disco metal, c'è del funk ma non è un disco funk, c'è la wave ma… vabè avete capito. c'era paura che patton comandasse fin troppo i giochi e portasse il tutto a suonare come un suo progetto: a tratti lo si sente prendere decisamente il comando ma l'apporto del gruppo non viene mai meno e il rischio è evitato in maniera estremamente intelligente. in più c'è da considerare che in tutto l'album dura 40 minuti netti, evitando così qualsiasi filler o pezzo inutile, è tutta una tirata dall'inizio alla fine che vi lascerà interdetti.

sì, perché almeno ai primi ascolti la dura cupezza del disco può lasciare spiazzati; pochi i momenti 'stupidi', molti di più quelli profondi e scuri, a partire dalle due perle assolute "separation anxiety" e soprattutto "matador", due pezzi che riportano le sorti del gruppo al top della scena: scrittura perfetta, groove strappafaccia e un'interpretazione strabordante da parte di tutti, due pezzi epici, storti, strani, paranoici ed animati da un'inquietudine instabile ed elettrica che non molla mai. 
il resto non è molto da meno: quando decidono di spingere se ne escono con bordate impazzite come "superhero" e "black friday", quando la mettono sull'atmosfera ti fondono con "sol invictus" e le melodie di "sunny side up" (che nasconde abilmente una struttura piena di cambi di tempo), quando si lasciano liberi scrivono un pezzo pazzesco come "cone of shame" (in cui è molto facile trovare la matrice di un sacco di canzoni dei pain of salvation, per dirne uno) o la creepy "rise of the fall", la quale mette bene in mostra le tastiere di roddy bottum, sempre presenti, spesso protagoniste delle canzoni.

insomma, il songwriting c'è, il gruppo assolutamente c'è, parliamo un po' dei suoni.
a livello di prese il tutto è fantastico, specialmente la sezione ritmica con la batteria spigolosa di bordin e il mostruoso basso sempre in primo piano di gould, anche produttore del tutto.
quello su cui si può discutere è un mastering a tratti un po' troppo spinto che lascia poco respiro, soprattutto nei momenti più tirati: la voce resta un po' dietro e l'effetto è a volte troppo schiacciato ma non parliamo di un omicidio (qualcuno ha detto toto?), l'album rimane godibile e, complice anche la ridotta durata, non arriva mai a stancare.
ovviamente non sarebbe una mia recensione se non mi lamentassi almeno di qualcosina: ragazzi, due paginette di booklet potevate metterle, bello il digipack ma senza testi, senza reali foto, giusto i credits (senza nemmeno dire chi suona cosa! va bene che dovrebbero insegnarlo alle elementari, però…) e l'artwork, per colori ed impatto abbastanza in linea con quello di 'album of the year'.

per concludere, c'erano un sacco di rischi riguardo questo disco ma i faith no more, in quanto gruppo tra i più intelligenti che il rock abbia mai visto, riescono ad evitarli in scioltezza dando alle stampe quello che è effettivamente il loro nuovo disco, perfettamente inseribile nel loro catalogo e, soprattutto, tremendamente godibile. cambierà la storia? no. cambia qualche prospettiva sul gruppo? no. cambia una giornata in meglio? sì.
dimenticatevi quello che vi aspettavate dal nuovo disco dei faith no more e inizierete ad apprezzare 'sol invictus'. quando ci riuscirete vi renderete conto che questo disco è tutto quello che vi aspettavate, forse anche un po' di più.