lunedì 26 gennaio 2015

the decemberists, 'what a terrible world, what a beautiful world'



ci han fatto aspettare un po' i decemberists per avere questo disco. certo, meloy aveva detto che si sarebbero presi una pausa, in più il tumore al seno di jenny conlee non ha certo aiutato. oggi che la polistrumentista è guarita, eccoci a parlare finalmente del primo disco di inediti dallo strepitoso 'the king is dead' del 2011.

chi si aspettava un seguito sulla falsariga di quel disco potrebbe rimanere deluso. del resto anche chi si aspettava un 'hazards of love' parte 2 può rimanere deluso. mettiamola così, se avevate aspettative ben precise riguardo a questo disco o se vi aspettavate che fosse un blocco omogeneo, molto probabilmente ci metterete un po' ad assimilarlo. 
se vogliamo, 'what a terrible world' si presenta più come una forma più riuscita del dinamicismo di 'picaresque', disco che difficilmente stava fermo sulle stesse sonorità per più di due pezzi. nel momento in cui sentirete cavalry captain capirete perfettamente il parallelo con l'album del 2005, difficile non pensare a we both go down together con quel lick di archi ossessivo e la voce lamentosa molto molto molto vicina a territori r.e.m..

il disco è probabilmente il più vario e dinamico nella carriera del gruppo e spazia dalle dolci ballate campagnole di 'the king is dead' (make you better, lake song, 12-17-12) a momenti vicini agli inizi di 'castaways' (better not wake the baby, anti-summersong), passando per il suono più pieno di 'hazards' ma andando a colpire veramente nel segno grazie al feeling generale di passione e voglia di vivere che permea tutte le composizioni, anche le più oscure. ovviamente le composizioni più oscure sono anche le migliori: lake song fa cadere una lieve pioggerella grazie a un arrangiamento semplice quanto curato, sostegno a melodie profondissime interpretate da un meloy più cantante che mai (pare abbia scoperto di avere un registro vocale ben più ampio di quanto ci abbia fatto credere finora). carolina low per atmosfera sembra arrivare dall'ep (sottovalutato) 'long live the king', un country-blues vibrante di cori enfatici e retto dal feeling pieno e profondo della voce. poi su tutto svetta il picco del disco e indubbiamente uno dei massimi vertici della carriera del gruppo: till the water is all long gone è semplicemente perfetta, dal lick di chitarra bluesy con cui si apre al mellotron che apre spazi infiniti, tutto in simbiosi con un testo da lacrime ed una drammaticità di fondo che lascia veramente basiti. 

potrei parlare degli anni '60 di philomena o degli accenni cave-iani di easy come, easy go, potrei dirvi che le coordinate di riferimento non sono lontane dal solito (byrds-r.e.m.-neil young). oppure, come effettivamente farò, potrei piantarla qui e raccomandarvi di ascoltare quello che, già a gennaio, posso assicurarvi essere uno dei dischi dell'anno.