martedì 25 giugno 2013

alice in chains, "the devil put dinosaurs here"



quella che all'inizio sembrava una reunion, si è rivelata poi essere una sfida.
gli alice in chains, riformandosi senza layne, hanno sfidato il mondo a testa alta e la loro sfida l'hanno vinta al primo turno, con un "black gives way to blue" che era impensabile aspettarsi. bravi applausi, conclusi i giochi? no. ovviamente no.
non avendo più nulla da dimostrare ed essendosi lasciati indietro tutti i fantasmi che infestavano bgwtb, gli alice tornano con un nuovo disco e ancora una volta vincono.

all'inizio non sono rimasto entusiasta, il suono è davvero tanto simile a quello del disco precedente. con gli ascolti tuttavia, una volta che le canzoni assumono identità precise, si nota come il nuovo disco sia ancora più lento ed opprimente del suo predecessore, tendenza in contrasto con le voci che invece si fanno ancora più ariose e praticamente non sono mai meno di due. quindi abbiamo di base un disco quasi sludge con sopra delle armonie vocali apertissime e catchy in maniera storta ed inquietante.

"hollow" è perfetta per inquadrare quanto appena detto, così come l'incredibile "phantom limb" o la devastante "stone", dal riff pesanterrimo.
in mezzo a questa evoluzione/non-evoluzione si trovano poi delle gemme che spiccano per particolare ispirazione. su tutte senza ombra di dubbio spicca la title-track, cupa, inquietante, paranoica e strascinata, uno dei migliori brani degli alice in assoluto. a seguire subito "lab monkey", altro gioiello col suo equilibrio perfetto di marciume, angoscia e aperture melodiche a sorpresa. fantastica poi "pretty done", sorta di rivisitazione di quello che fu il suono dell'omonimo album del '94, sbilenco e rancido.

per il resto non si trovano canzoni brutte, assolutamente, ma nessun'altra (a parte "scalpel" forse) riesce a distiguersi davvero e questo è il punto negativo dell'album: nonostante non si trovino scarti o pezzi brutti, soprattutto nella seconda metà il disco tende ad adagiarsi su ciò che ha già fatto e non riesce a convincere del tutto, lasciando l'impressione, più o meno fondata, di trovarsi davanti al disco meno bello della discografia del gruppo (causa di questo è anche l'eccessiva durata del tutto, 67 minuti non sono pochi). "meno bello", ripeto, non vuol dire brutto, ma bisogna sempre ricordarsi di cosa c'è stato prima. non è una questione di formazioni diverse o affetto per layne, semplicemente gli alice in chains hanno esordito con un trittico come facelift-dirt-aic che non può essere battuto, in nessun modo.

se non vi aspettate una rivoluzione, non rimpiangete il passato e se sapete dare atto del coraggio mostrato da questi signori, buttatevi nel disco e non ve ne pentirete.


giovedì 20 giugno 2013

queens of the stone age, "...like clockwork"




avevo perso le speranze, lo ammetto candidamente. lullabies to paralyze era noioso, era vulgaris era una cagata di disco. lo sfogo dei them crooked vultures ci aveva restituito josh homme in gran forma a tirare le redini di un progetto che ancora mi chiedo perché non abbia avuto un seguito.
e invece ora tornano i queens of the stone age e lo fanno con quello che è, inopinabilmente, il loro miglior disco dal quel songs for the deaf che ha fatto tremare il mondo intero.
non a caso questa ventata di qualità riporta alla corte delle regine anche un nome che contribuì a rendere proprio songs quello che era: dave grohl. l'uomo più felice e fortunato del mondo infatti siede dietro le pelli per 5 dei 10 pezzi presenti sull'album. il resto è stato suonato dal defezionario joey castillo prima di lasciare il gruppo, tranne la title-track che vede già il nuovo batterista ufficiale della band, quel jon theodore che coi mars volta fece scintille su dischi come de-loused e frances.
impossibile poi non parlare della sfilata di ospiti che homme invita a partecipare: dal figliol prodigo nick oliveri a mark lanegan, alex turner, trent reznor, jake shears per arrivare fino a elton john che presta i tasti d'avorio a "fairweather friends", uno dei pezzi più intensi e meglio riusciti del disco (co-accreditata a lanegan).

tuttavia questa parata di freak non riesce a spostare l'attenzione dalle canzoni, anche perché ogni comparsata è quasi in incognito a livello di suono: reznor canta parti del ritornello della bellissima "kalopsia" ma ora che te ne accorgi ha già smesso, shears è tuttora non pervenuto nella granitica apertura di "keep your eyes peeled" così come turner in "if i had a tail", classico groove rock alla qotsa.
così non ci si rende quasi conto che altri due momenti massimi del disco come il primo singolo "my god is the sun" e la splendida "i appear missing" (forse l'apice dell'album) sono in realtà prodotti della band "semplice", senza nessuno a partecipare con urla, schiamazzi o pianoforti pretestuosi e ciò è solo bene. perché è giusto ricordare che homme non è uno stronzo, ce la mette tutta per farcelo credere, si impegna per fare scelte davvero sbagliate e dischi osceni come era vulgaris, ma poi fa queste figate e ti ricordi che alla fine era il chitarrista dei kyuss e sotto sotto gli vuoi ancora bene. (nonostante un "booklet" del disco che è un furto bello e buono, voto 2 al packaging)


vogliategli bene anche voi, questa volta se lo merita.

martedì 18 giugno 2013

black sabbath, "13"



avviso subito che questa non sarà una recensione oggettiva e professionale. (strano, eh?)
il motivo? dai, su. non scherziamo.
cathedral, down, candlemass, my dying bride, pentagram, saint virus, electric wizard… potrei andare avanti per una decina di paragrafi ad elencare i gruppi che senza i black sabbath non sarebbero mai esistiti. non lo farò, li conoscete tutti e se non li conoscete sbagliate.

bill ward non è della partita, per questo o quel motivo non ci interessa in questa sede, quello che ci interessa è che brad wilk suona come il vecchietto inglese non avrebbe mai potuto, visti i problemi fisici e mentali legati all'età. è sicuramente una scelta più che azzeccata visto che il suo percuotere dona un groove notevole a tutti i brani ed una pacca davvero invidiabile. bravo gino.

ora veniamo alle cose serie.
ci si poteva aspettare tutto e niente da questo disco. per quanto mi riguarda ogni aspettativa è stata superata da un album che mette in fila 8 pezzi di cui nessuno manca l'obiettivo: ricordare al mondo chi sono i black sabbath, quelli che quella cosa lì che è il doom la fanno meglio di chiunque altro.

così si parte subito al rallentatore: sia "the end is the beginning" che "god is dead" si crogiolano un (bel) po' nella lentezza funerea prima di lanciarsi in cavalcate terzinate che vi faranno staccare la testa dal collo. "loner" è puro suono '70, riffazzo e groove, ma la prima vera sorpresa arriva con "zeitgeist", ballata spaziale semiacustica basata su una melodia straniante che non può che riportare la mente ai fasti di "planet caravan" o "solitude" e impreziosita da un solo finale di iommi che ricorda a tutti i fan degli opeth da dove vengano certe sonorità. da notare, in questo pezzo come nel resto del disco, come la voce di ozzy sia finalmente scevra dall'iper-produzione dei suoi dischi solisti e ne esca naturale come non la si sentiva da anni. (a questo proposito non si può non citare il lavoro di produzione di rick rubin che riesce a dare un tocco di modernità a un disco che se no rischiava di suonare già sentito) 
"age of reason" punta sull'epicità e, come la conclusiva "dear father", recupera certe tendenze heaven and hell che ormai fanno parte naturalmente del dna del gruppo. "live forever" è probabilmente un pezzo che non farà dormire lee dorrian per un bel po' di tempo, con le sue cascate di suono in slow motion, ma dopo di essa ecco arrivare la vera sorpresa, il pezzo che non avrei mai osato chiedere: "damaged soul". riff che fanno piangere i phil anselmo a letto, wilk scatenato, assoli grezzi e live senza chitarre ritmiche e un'armonica impazzita che urla sopra al macello. questa canzone da sola vale tutto il disco e riscalda i cuori di chi aspettava con impazienza il ritorno del sabba.


i difetti ci sono, non si può negare, ma sono di quei difetti che ti fanno sorridere e non incazzare. sinceramente non avrei potuto chiedere di più dai black sabbath, non avrei neanche osato chiedere tutto questo. eppure loro ci hanno creduto e l'hanno fatto. grazie, black sabbath.


lunedì 3 giugno 2013

nanodischi #6: maggio 2013




sting - bring on the night (1986)

nel 1985 sting partì per il suo primo tour solista, dopo il successo enorme del suo primo album "the dream of the blue turtles". il volpone inglese, tendente sempre più a un jazz-pop d'autore più che al rock dei police, si porta dietro una band da capogiro, con omar hakim e darryl jones direttamente dalla band di miles davis, branford marsalis al sax e kenny kirkland al piano e tastiere. il risultato è un doppio live in cui canzoni e improvvisazioni si fondono per due ore in un circo fantastico e multiforme. 

rush - hold your fire (1987)

i rush degli anni 80 vengono spesso maltrattati da chi li vorrebbe sempre prog e duri come negli anni 70. io li ho sempre trovati geniali anche nel periodo controverso (grace under pressure è probabilmente il mio disco in studio preferito) e "hold your fire" per certi versi è l'apice di questo loro momento. il suono arriva ad un'omogeneità  ed una spazialità indescrivibili, i pezzi si colorano di una melodicità ancora più accentuata e ne esce un disco diverso e quasi solare.

nine inch nails - pretty hate machine (1989)

quando il giovane trent si spostò a cleveland in gioventù, tra un progetto e l'altro iniziò a buttare giù schizzi di canzoni nel suo studio in casa, creando così un demo che attirò l'attenzione della tvt records. grazie al contratto con loro, ecco "pretty hate machine", primo parto ufficiale dei nine inch nails. di quello che succederà poi qui si trovano embrioni ma il disco si muove più su territori synth-pop-rock, tra skinny puppy, depeche mode e ministry con il senso melodico di reznor a fare da collante e rendere brani come head like a hole, terrible lie o sin veri classici. something i can never have è la perla dimenticata, recuperata anni dopo in un toccante riarrangiamento acustico.

monument - the first monument (1971)

unico disco uscito a nome monument (che poi erano gli zior con un nome diverso), "the first monument" è il parto di una notte di jam sessions alcoliche tra quattro amici. è un rock-hard-prog molto oscuro e straniato dal suono caldo e live che ricorda un po' dei black sabbath in versione jam band o dei black widow più prog. consigliatissimo a chi non ha mai abbastanza anni 70.

the mars volta - octahedron (2009)

"octahedron" è un disco di passaggio ma quando uscì non si sapeva di preciso verso cosa fosse quel passaggio. il gruppo arrivava dalla sbornia hard-funk-prog schizoide di "the bedlam in goliath" e qui ritrova il gusto per la melodia più semplice, rinunciando per quasi tutto il disco all'orgia di suoni e tempi dispari degli album precendenti. imperdibili almeno with twilight as my guide, desperate graves e teflon. copernicus invece mostra già i germi di quello che sarà poi il capolavoro "noctourniquet".

bombino - nomad (2013)

dietro a questo buffo nome si cela un tuareg trentenne del niger appassionato di rock blues, deserto e hendrix. questo disco, prodotto da dan auerbach, è il suo terzo e mostra un'ottima capacità da parte del nostro di produrre un desert rock venato spesso e volentieri di blues attraversato continuamente da suoni e profumi esotici della sua terra, creando una commistione particolare e di indubbio interesse. di negativo il disco ha che nella sua durata non riesce a risultare molto dinamico per cui può stufare ma almeno un ascolto dateglielo.