domenica 21 aprile 2013

supertramp, "paris"




è strano il destino che è capitato ai supertramp. per qualche motivo si sono ritrovati col tempo confinati in una terra di nessuno che li vede rinnegati come dinosauri del rock e dimenticati completamente dalla gioventù odierna. eppure di dischi ne hanno venduti ma per qualche motivo non hanno lasciato un solco nella memoria come hanno fatto anche i peggiori "genesis" (ovvero qualsiasi cagata abbiano prodotto da seconds out in poi). e non si può nemmeno dire che la loro musica sia invecchiata male, lo dimostra ampiamente il successo che hanno avuto nel 2006 i gym class heroes con la loro cover/remake di breakfast in america.
ciononostante chiedete per strada a gente a caso se sanno chi siano i supertramp e 9 su 10 vi guarderanno come se parlaste in sarkazistano.

questi signori inglesi sono stati uno di quei casi in cui un conflitto nel gruppo ha portato ad un equilibrio precario che ha dato vita a dischi grandiosi quali "crisis, what crisis?", il pluripremiato "breakfast in america" e soprattutto (per me) "crime of the century", un capolavoro che oscilla continuamente tra rock, pop, progressive e atmosfere jazzate senza mai essere veramente nulla di tutto ciò. questo grazie proprio alla continua sfida tra le due menti, roger hodgson (chitarra, tastiere e vocina stridula) e rick davies (il sosia di gesù cristo, piano, piano elettrico, armonica e voce rauca).

però siccome 1) ci sono canzoni da ricordare in ognuno dei loro dischi fino al '79, 2) i best of mi stanno sul cazzo e 3) stiamo parlando di musicisti con due palle così, vi parlerò di quello che per me è il compendio assoluto di tutta la loro fase migliore, ovvero il live "paris", registrato nell'80 durante il tour di "breakfast in america".

in questo doppio troverete tutte le caratteristiche che rendono unici i supertramp, a partire proprio dal solco che divide le composizioni: da una parte hodgson, con la sua voce geddy lee style (a tal proposito c'è un collegamento abbastanza immediato proprio coi rush del secondo periodo) e le sue canzoni più improntate alla melodia "semplice" ed efficace, da the logical song a hide in your shell, take the long way home o a soapbox opera; dall'altra parte davies con pezzi più d'impatto strumentale e trame armoniche trainate dal suo splendido piano/piano elettrico: ain't nobody but me e bloody well right sono i due esempi più evidenti.
in mezzo però c'è tutto il meglio. dove i due approcci si incontrano arrivano i veri e propri capolavori: school, crime of the century, fool's overture, from now on, tutti momenti perfetti in cui si manifesta appieno quell'equilibrio fra generi di cui parlavo prima, attraversati da una vena epica talvolta quasi americana (i savatage ne sanno qualcosa) e da quella magia che solo i più grandi riescono a fare. e solo i grandi possono comporre una canzone come "rudy": apice totale del live (e della discografia del gruppo), malinconica e tesa, altalena di esplosioni ed implosioni legate da melodie perfette e incorniciata dal sublime arrangiamento di piano di davies, rudy è la sintesi totale di tutto ciò che erano i supertramp.

ho parlato finora solo di davies e hodgson perché sono i due principali artefici di questo suono unico ma ovviamente non si può dimenticare il resto della band: senza i fiati di john helliwell nulla di tutto ciò sarebbe possibile, le sue linee di sax sono parte fondamentale del corredo melodico della band, così come il groove solido dettato da dougie thomson e bob siebenberg (rispettivamente basso e batteria) garantisce il "rotolamento" necessario ai pezzi.
in "paris" troverete tutto ciò che c'è da sapere (ed è stato dimenticato da troppi) sui supertramp, senza tralasciare chiaramente le hit mondiali come the logical song o brekfast in america (con simpatico siparietto iniziale in cui davies fa incazzare i fan francesi raccontando della sua squisita cena... in un ristorante italiano. bravo gino.), brani storici perché pervasi da melodie che una volta entrate dalle orecchie non lasciano più la testa dell'ascoltatore ma anche esempi di classe superiore nell'arrangiamento e nella composizione.

penso si intuisca che vorrei andare avanti per giorni a parlare dei supertramp ma purtroppo non posso. quindi ora smetto di scrivere e riparto dal primo disco. fatelo anche voi.

crime of the century: http://grooveshark.com/#!/album/Crime+Of+The+Century/1173754
best of: http://grooveshark.com/#!/album/The+Very+Best+Of+Supertramp/1086192

martedì 16 aprile 2013

king's x, "gretchen goes to nebraska"




della serie: le cose buffe.
questo disco mi fu consigliato anni orsono (credo una decina) da qualcuno (ovviamente non ricordo chi). quando lo ascoltai però non rimasi particolarmente impressionato, sembrò un dischetto che scivola via tranquillo. poi per anni me ne sono completamente dimenticato.
pochi mesi fa per puro caso me lo sono ritrovato in casa e gli ho dato una seconda possibilità. ora è uno dei dischi che ho ascoltato di più negli ultimi 6 mesi.

i king's x sono comunque un gruppo buffo. son tre personaggi che non ti aspetti, a partire da doug pinnick, bassista di colore ed omosessuale che nei testi parla di quanto sia difficile per lui essere accettato come cristiano dalla comunità. wtf. la fiera della discriminazione parte da qui. poi però senti quella voce e improvvisamente tutto ha senso. quando lo senti sbraitare con la sua vociaccia soul raccontando di sua nonna che diceva di sentire continuamente musica da sopra la sua testa... per un qualche motivo tutto quadra.
over my head è anche uno dei pezzi più famosi e longevi nelle scalette del trio, i quali spesso e volentieri la dilatano fino ai dieci minuti.

ma cosa suonano i king's x? (o suonavano, gretchen è dell'89)
di base l'unica definizione che mi sento di dare è "rock", punto. senza dubbio si sente l'influenza dei rush post-permanent waves (l'arpeggio di summerland), così come c'è un occhio rivolto agli sviluppi di quel suono, queensryche in primis (send a message). d'altra parte il chitarraio ty tabor porta con sé manciate di beatles che sparge sottoforma di splendide armonie a tre parti in vari pezzi del disco (in particolare nella conclusiva the burning down l'influenza dei baronetti è lampante), così come pinnick porta, da bravo uomo colorato, una notevole dose di groove funk con slap sostenuto dalle ritmiche semplici ma efficaci di jerry gaskill, oltre alle inflessioni soul della sua voce (everybody knows).

il risultato di tutto questo mischione è un disco incredibilmente coeso e compatto che non stufa mai, anche considerata la qualità media dei pezzi che non cala mai per un secondo lungo tutta la durata (50 minuti) del disco. la magniloquenza di out of the silent planet, il groove assassino di over my head o don't believe it (uno dei capolavori dell'album), la placida malinconia di summerland, i cenni psichedelici di pleiades e le durezze di fall on me, tutto è perfetto qui dentro, non c'è un tassello fuori posto e tutto è approcciabile da chiunque grazie alla classe melodica del gruppo che incatena una serie di ritornelli incredibili.

non è difficile capire dove stia la forza di un disco così. trovarsi davanti dei musicisti così abili a spaziare tra decine di generi ma anche a mantenere un suono personale e sempre riconoscibile non è facile. che poi riescano a fare un disco strano ma catchy, semplice ma mai facile, profondo ma non intellettualoide, duro ma melodico... così al volo mi vengono in mente solo i rush. dici cazzi...
mi pento di tutto quel tempo della mia vita in cui non ho ascoltato gretchen. vi consiglio di fare altrettanto perché questo disco è praticamente un miracolo.

giovedì 4 aprile 2013

depeche mode, "delta machine"




io credo, ormai da un po' di tempo, che dopo i beatles i depeche mode siano la macchina pop perfetta per eccellenza. questo ovviamente per motivi che escono anche dall'ambito strettamente musicale, non c'è bisogno di ricordarli. ma analizzando anche solo le canzoni, il modo naïf con cui martin gore è stato in grado di snocciolare perle su perle per più di 30 anni è perfetto specchio di quella spontaneità e finta ingenuità che è alla base di tutto il pop. la loro musica non è (tranne in qualche caduta di stile) demagogica, ha solo la peculiarità di coincidere perfettamente con quello che il pubblico vuole e anche quando non lo fa (penso al sottovalutatissimo "exciter") ne esce comunque vincitrice grazie al preziosissimo contributo dei vari produttori che si sono avvicendati negli anni (altro aspetto classicamente pop, l'osmosi musicale dell'artista col produttore). basti pensare ai risultati ottenuti insieme a gareth jones su "black celebration" o con flood su "songs of faith and devotion".

ho citato tre dischi finora e non l'ho fatto a caso.
"delta machine" è il nome del nuovo arrivato che già nel titolo svela i suoi intenti: trovare un equilibrio tra il calore del blues e la freddezza delle macchine, tra, appunto, "songs of faith and devotion" e "black celebration". "exciter" invece mi serve per spiegare la mia prima impressione sul disco. ad un primo ascolto infatti, in vari momenti ho pensato che questo disco avrebbe potuto perfettamente stare al posto di "ultra". con ciò non dico che qualitativamente i due dischi siano sullo stesso piano, considerando per di più che "ultra" è uno dei miei preferiti. intendo invece indicare come canzoni come dream on o the sweetest condition tirassero già in questa direzione, prima che il revival a tutto spiano di "playing the angel" e "sounds of the universe" prendesse il sopravvento.

di questa nuova trilogia prodotta da ben hillier, "delta machine" è senza dubbio il disco più sincero, ispirato, sentito e motivato. per farla breve, è il migliore dei tre.
è un disco che si prefigge un obiettivo e lo raggiunge, grazie anche ai contributi compositivi di dave gahan (tre, come da tradizione) che firma almeno uno dei migliori pezzi del disco, should be higher, venato di soul quanto basta su un beat che non dà tregua. ottima anche  broken, a metà tra little 15 e suffer well.
ciononostante è ancora martin l'anima del disco, che con le sue canzoni permette a dave si dare tutto sé stesso, come nella strepitosa angel, lercia e trainante nella strofa prima della magistrale apertura del ritornello. che dire poi dell'inarrestabile soft touch/raw nerve che arriva a ricordare a question of time col suo martellamento incessante o del nuovo singolo soothe my soul, il più classicissimo degli inni depechemodiani interpretato con una verve e un calore che mancavano da un po' di tempo in questo modo.

poche le ballate nell'edizione standard. il primo singolo heaven (bella ma un po' troppo pilota automatico) e la malinconica the child inside, appuntamento fisso con la voce di martin, convincono senza esagerare. ci pensano invece slow e la conclusiva goodbye a regalarci dei lentoni caldi e profondi, sui quali dave la fa da leone (come gli è riuscito solo su qualche canzone della collaborazione coi soulsavers).

mi sento poi di citare my little universe, la quale più evidentemente di tutte le altre canzoni mostra quanto si sia divertito martin nel suo progetto vcmg com vince clark: suoni asciutti e pulsazioni elettroniche nel vuoto costruiscono un'ossatura che è ritmica e armonia al contempo in un esperimento perfettamente riuscito che riporta proprio al minimalismo techno di "ssss".

per riallacciarmi all'introduzione, penso che "delta machine" porti su di sé ancora tutti quei segni distintivi che rendono i depeche mode quella macchina perfetta. certo, la carica innovativa è svanita da un po' di anni, ma ricordiamoci anche che questi suoni loro hanno contribuito a crearli per cui le lamentele lasciano il tempo che trovano. quello che più ho apprezzato è il ritrovato calore, sia nei suoni che nelle melodie, e l'immutata capacità di scrivere canzoni incredibili che più che nei precedenti dischi torna a galla con decisione in un disco oscuro e dal suono crudo e sporco (per quanto possa esserlo un disco dei depeche nel 2013, intendiamoci). se siete delusi perché vi aspettavate altro, forse non vi piacciono così tanto i depeche mode. o magari dico stronzate io.

martedì 2 aprile 2013

steven wilson, teatro della luna, assago, 28-03-2013






e finalmente, con ritardo clamoroso, eccomi a parlare del ritorno di steven wilson sui palchi milanesi, a quasi un anno esatto dalla memorabile data all'alcatraz. un anno che ha visto la pubblicazione di due live, uno carino ("catalogue preserve amass") in cd e uno superlativo in dvd/bluray/cd/sticazzi ("get all you deserve"), e soprattutto dello splendido "the raven that refused to sing" che ha quasi bissato la grandiosità del suo eccelso predecesore, "grace for drowning".

inoltre la formazione vede l'ingresso del fenomenale guthrie govan alla chitarra, in sostituzione di niko tsonev che era sì piaciuto, ma anche rimasto un pochino anonimo, superato oggi dalla classe e dal suono pazzesco del lungocrinito inglese.

proprio dall'ultima fatica in studio parte il concerto, dopo una mezzora di proiezioni di facce mostruose che si fondono con una luna piena, tutto accompagnato da una nuova composizione dei bass communion. la tripletta luminol/drive home/pin drop presenta tutti i tratti salienti del concerto: suono cristallino e perfetto e musicisti in gran forma ricreano perfettamente le atmosfere misteriose dell'ultimo disco. wilson continua a migliorare come cantante e regge tutto il concerto in modo ottimo, suonando anche chitarra, mellotron e basso, beggs è una macchina del groove, passando anche allo stick con effetti devastanti su una holy drinker da lacrime e la sua sincronia con minneman ha del sovrannaturale; purtroppo ancora una volta, nonostante il nuovo disco, non mi ha affatto convinto proprio minneman, tecnicamente da incubi ma a mio modesto parere troppo sbrodolone e tamarro per molti pezzi. (wilson ci informa per altro che questa è la sua ultima data con la band per motivi contrattuali. in america verrà sostituito da... chad wackerman. pessimismo e fastidio.)
ad ogni modo nulla di tutto ciò infierisce più di tanto sul risultato finale per cui non sto a lamentarmi troppo. e poi c'è guthrie govan, con QUEL suono e quelle dita può fare qualsiasi cosa voglia ma, al contrario del compare e amico batteraio, il gusto lo porta sempre verso accompagnamenti o assoli magnetici che risaltano nel complesso senza mai essere sopra le righe.

eroi assoluti per quanto mi riguarda sono stati adam holzman e theo travis. il primo, grazie ad una tecnica che gli garantisce un controllo straordinario, si lancia in assoli di gusto jazz rock (che non è fusion) animati da vene melodiche di classe assoluta oppure arricchisce gli arrangiamenti con un pianoforte dal retrogusto classico che tanto sa di tony banks a modo suo. e come non pensare ai genesis quando il flauto traverso di theo travis si muove sinuoso sui leggiadri accordi della parte centrale di luminol? difficile rimanere indifferenti poi quando il suo sax o clarinetto portano di prepotenza il jazz su schitarrate hard da manuale.

i momenti migliori del tutto per me sono stati sicuramente l'infernale the holy drinker, the watchmaker con tanto di video d'introduzione (ed effetti sonori che forse forse ricordavano vagamente time dei pink floyd), la sempre splendida index e il trittico finale, apice assoluto dello show: raider ii, lunga discesa in un abisso frippiano senza ritorno, the raven that refused to sing, accompagnata dal commovente video, vero climax emozionale del concerto, e, a sorpresa... l'esecuzione completa di radioactive toy dal primo disco dei porcupine tree. 12 minuti di psichedelia liquida che risvegliano ombre di un passato chiamato "coma divine" e incantano il pubblico, ipnotizzato di fronte a cotanta grandiosità.

mi pare che non ci sia gran bisogno di conclusioni. chi segue il blog sa cosa penso di steven wilson e questo concerto non ha fatto altro che confermare ulteriormente il mio pensiero: non è un innovatore ma è originale e genuino, non è uno strumentista tecnico ma un fine compositore ed un ascoltatore professionista. in poche parole, c'è tanta gente che prova a fare progressive oggi. wilson arriva e mostra a tutti come farlo meglio. che robert fripp lo benedica per questo. ah, già. l'ha già fatto.


scaletta:

luminol
drive home
the pin drop
postcard
the holy drinker
deform to form a star
the watchmaker
index
insurgentes
harmony korine
no part of me
raider ii
the raven that refused to sing
radioactive toy