giovedì 26 dicembre 2013

il 2013 e i dischi dell'anno (1978).



ammetto che quest'anno sono un po' in difficoltà nello scrivere questo articolo. non è che non siano usciti dischi belli, anzi, ce ne sono un bel po'. il vero problema per me è che nessuno di questi dischi spicca sugli altri in modo particolare. sicuramente se devo dare il premio finale a uno solo, quello sarebbe wilson ma…

I. dischi belli

partiamo da una carrellata generale dei dischi belli che non metterò in "classifica".
verso fine anno è arrivata una bella palata di roba: i sun and sail club han fatto un disco stupendo che sta a metà tra il metal di fine 80 e il classico suono stoner tra fu manchu e kyuss, in più con l'idea fichissima di cantare tutto in un vocoder, bravi bravi gini. poi a un certo punto son comparsi i sons of kemet che coi loro riff di tuba e i deliri percussivi dei due batteristi hanno colorato di tribale un jazz che è decisamente più fisico che cerebrale per una volta.
poi ci sono i due dischi "difficili" dell'anno che mi son piaciuti da morire ma nei quali ancora non son riuscito ad entrare come vorrei: ulver e these new puritans hanno scritto due opere fantastiche, la prima più legata alla tradizione classica, tra gorécki, mahler, colonne sonore e quel tocco di disagio che riporta quasi al caro scott walker, la seconda un'opera più "rock" ma che con l'apporto degli strumenti classici profuma di david sylvian lontano un miglio, oltre ai rimandi al primo post rock tra tortoise e bark psychosis. due disconi che vanno assolutamente sentiti.
nel mainstream cito ma non in classifica depeche mode e pearl jam, due dischi che confermano ancora una volta (come se ce ne fosse bisogno) che qualcuno non è ancora pronto per la pensione.
ho inoltre apprezzato molto tanto assai il disco di kristoffer gildenlöw che suona molto più pain of salvation degli attuali pain of salvation.
e poi il monumentale mbv, ritorno dopo qualche anno (22, cani) dei my bloody valentine ancora in forma come non mai, oppure welcome oblivion, ovvero l'opera riuscita di reznor del 2013, contrariamente a… 

II. dischi brutti

contrariamente a quella cagata offensiva e immonda che risponde al nome di hesitation marks. mi rifiuto di parlarne da tanto è il disagio e il fastidio che provo nei confronti di quel "disco" dei """""""""nine inch nails"""""""""". 
eppure può essere che la palma di disco più brutto dell'anno vada, senza troppi dubbi, a quel fondo di barile chiamato "album biango", ovvero il disco più brutto, sciapo e inutile dell'intera carriera degli elio, retto da singoli che non sono nemmeno canzoni, privo di idee e noioso come nemmeno cicciput riusciva ad essere (e questo è un insulto abbastanza brutto). se con studentessi avevamo sperato che fossero tornati ai bei tempi, qui l'illusione si spegne già al secondo pezzo. bravi, bella schifezza.
poi come già detto in passato, il 2013 è l'anno delle buffonate dei "queensryche", riusciti a splittarsi in ben due gruppi per registrare due dischi uno più brutto dell'altro (quello di geoff è peggio). per non parlare dei dream theater che ormai sembrano i muse che fanno cover di colonne sonore di walt disney o di lucassen che nel nuovo ayreon ricicla per l'ennesima volta le stesse soluzioni, stesse idee, stessa roba di sempre.
infine sono rimasto abbastanza deluso anche dai daft punk, singolo molto catchy ma disco che si arrotola su se stesso e non va da nessuna parte col suo revival forzato e alla lunga piatto e noioso.

III. top 10



veniamo alle conclusioni. ve li metto in elenco ma non prendeteli per forza nell'ordine in cui li metto, come dicevo faccio fatica a trovarne uno che spicchi nettamente.
quindi.

alice in chains - the devil put dinosaurs here

non è "black gives way to blue" ma la capacità che hanno gli alice di stare ancora in piedi dopo tutto questo tempo e le varie vicende è solo lodevole, soprattutto visto che sono riusciti a fare un disco con canzoni ispirate, sincere che funzionano perfettamente grazie anche ad un suono a dir poco gigantesco. 

nick cave & the bad seeds - push the sky away

dopo la sbornia di rocchenrol e baffi di lazarus e dei grinderman, nicola caverna prende quel suono asciutto e scarno e lo mette al servizio di pezzi morbidi e delicati, ben lontanti però dallo sfracellamento di maroni di "no more shall we part" o "nocturama", più vicini semmai a un incrocio fra i dirty three più leggeri e "murder ballads". c'è meno cave istrione ma l'atmosfera del disco è veramente sublime e gli arrangiamenti tra i migliori dell'anno.

ben harper & charlie musselwhite - get up!

per quanto ben harper mi abbia annoiato nella vita, ammetto che questo disco l'ho consumato quest'estate. blues cantautorale sporco ma elegante, graffiante ma educato, nero ma bianco. un disco che vive di contrasti nella sua semplicità, trainato dall'armonica di musselwhite che va dal corrosivo al poetico all'indiavolato in men che non si dica. 

carcass - surgical steel

come non parlare di questo ritorno sopra ogni più rosea aspettativa. da quando si son sciolti la gente ha provato in mille modi a ricreare quel suono, chiunque faccia metal gli ha rubato di tutto, migliaia di band li hanno presi come stella polare. loro tornano ridendo e scherzando, fanno i cazzoni hippie ma poi ti buttano lì un disco da strapparsi le mutande coi piedi. il suono è quello, l'attitudine anche, i riff sono centomila e sono uno più bello dell'altro, la voce non ha perso nulla di quell'abrasività unica ed inimitabile. sono i carcass e son tornati a fare quello che fanno meglio. meglio di tutti, s'intende.

queens of the stone age - …like clockwork

mi è partito un po' in sordina, è cresciuto col tempo e prima che me ne accorgessi lo sapevo già a memoria ed era fisso nell'autoradio. i qotsa sono riusciti finalmente a dare un degno seguito a songs for the deaf, dopo un paio di dischi che definire inutili è un eufemismo.
poi con batteristi come dave grohl e jon theodore, la garanzia di una sezione ritmica solida, fantasiosa e rotolante lascia homme libero di sciorinare riff su riff che vi faranno scapocciare un bel po'.

fates warning - darkness in a different light

forse più per affezione, forse più per paragone con i loro "simili" nel 2013, sta di fatto che questo disco, pur coi suoi difetti, è veramente bello. i fates riescono a riportare il loro suono cervellotico ad una potenza metal messa quasi alla base del disco, pur mantenendo e modellando l'approccio melodico che è sempre stato nel loro dna. il ritorno di aresti alla seconda chitarra e l'ingresso di jarzombek alla batteria garantiscono la potenza di cui sopra, lo stato vocale e la classe di ray alder fanno il resto.

black sabbath - 13

dopo tutto questo tempo, non poteva che essere bellissimo. i black sabbath hanno fatto quello che tutti noi volevamo, ovvero un disco dei veri black sabbath. i riffazzi di iommi brillano per impatto e ispirazione ma a brillare ancora di più è il basso di geezer, mai così in primo piano e protagonista di linee stupende con un suono che arriva dritto dritto in faccia. bravo ozzy che non prova cose che non può più fare, bravissimo brad wilk nel suo ruolo estemporaneo ma fondamentale. e poi le canzoni, anche quelle un pelo meno valide sono comunque lì a ricordare perché loro sono i black sabbath e tutti gli altri no.

dead in the dirt - the blind hole

21 canzoni per circa 25 minuti di musica. i dead in the dirt sanno dove stanno le giunture delle ossa e sanno dove colpire per rompervele tutte in poco più di venti minuti.
apertamente straight-edge, vegan e tutti i cazzi del caso, i dead in the dirt deflagrano in un grind decisamente imbastardito di hardcore, crust e momenti doom che non lascia il tempo di respirare, grazie anche ad una produzione sinceramente perfetta che conferisce una potenza disumana al trio, come se i converge si mettessero a fare cover dei napalm death insieme ai brutal truth.

correction house - last city zero

lo metto un po' a forza perché voglio ancora tempo per assorbirlo ma l'incubo messo in scena dai corrections house è indubbiamente degno di più di una nota. il contrasto fra le voci, in particolare di scott kelly e mike williams, mette i brividi ogni volta, la continua osmosi tra rock, hardcore, industrial, elettronica, ambient, drone e cantautorato desolante mette in mostra un'alchimia tra i musicisti che ha l'aria del miracolo, una sorta di versione metropolitana e lurida di quello che fecero gli shrinebuilder qualche anno fa.

steven wilson - the raven that refused to sing

mi fa incazzare mettere questo disco come ipotetico disco dell'anno. mi fa incazzare perché è un album ruffiano e paraculo, fatto apposta per piacere a chi vuole un certo tipo di cosa, con tutti i riferimenti del caso: dai più scontati (genesis, yes, king crimson, zappa) a quelli meno -ma neanche troppo- (gentle giant, magma e tutti gli altri), tutto viene frullato insieme in un vero e proprio vademecum del progressive in cui steven wilson diventa direttore della sua band di mostri (ulteriore paraculata) per dare vita alle sue canzoni. fin qui verrebbe da dire, bravi ma già fatto già sentito. verissimo, il problema è che le canzoni invece non le avevamo già sentite, e sono una più bella dell'altra. qui viene fuori il wilson autore, che con una sola melodia può creare lo spazio per qualsiasi contorsione strumentale possibile, ritmica o armonica. e in questo l'apporto di ogni singolo musicista è fondamentale: in ordine crescente abbiamo il nervosismo di minnemann, la solidità del basso di beggs, gli svolazzi melcollinsiani di theo travis, sia al sax o al flauto traverso, il gusto, tocco e suono di un chitarrista inarrivabile come guthrie govan e infine le dita magiche di adam holzman che lascia a bocca aperta con ogni tastiera ma quando mette le mani sul piano fa seriamente venire le lacrime.

IV. canzoni

ed ora, in ordine ad cazzum, un po' di canzoni bellebellebelle di quest'anno.

alice in chains - lab monkey
black sabbath - damaged soul
carcass - thrasher's abattoir
nick cave & the bad seeds - higgs boson blues
depeche mode - angel
fates warning - firefly
kristoffer gildenlöw - overwinter
pearl jam - sirens/pendulum
queens of the stone age - i appear missing
steven wilson - the holy drinker

V. dischi dell'anno

per finire, eccovi i miei 5 effettivi dischi dell'anno. come potrete facilmente notare, sono tutti molto recenti. il più giovane ha solo 18 anni.

neil young - live rust
king's x - gretchen goes to nebraska
tears for fears - the hurting
neil young - tonight's the night
toto - isolation

viva viva, rocchenrol, sesso, droga, alcol e qualsiasi altro stereotipo possiate pensare. ve li auguro tutti nel giro di soli 10 minuti se avete effettivamente letto tutto fino a qui. se no, come direbbe aristotele: "sticazzi."

yo.

martedì 3 dicembre 2013

nanodischi #9: novembre 2013




periodo di attività ai distant zombie warning, chiedo scusa per i pochi (nessuno) articoli. quindi prima del mega ricapitolone di fine anno, ecco più o meno cos'ho ascoltato in questo mese passato. circa. forse. forse no.


neil young - everybody knows this is nowhere/massey hall 1971

nel mio personale anno neil young, in quest'ultimo mese gli ascolti si sono ridotti a questi due dischi. il primo è un capolavoro folk rock che tutti dovrebbero conoscere, dall'eterna down by the river alla celebrazione elettrica di cowgirl in the sand, disco perfetto. 
il secondo è un live alla massey hall del 1971 con neil in solitaria che chiacchera col pubblico e presenta pezzi nuovi che finiranno su harvest e altri dischi futuri. atmosfera impagabile, live stupendo, ideale fotografia del lato intimo di young.


dead in the dirt - the blind hole

questo sarà sicuramente nella mia top 20 di fine anno.
21 pezzi, circa 19 minuti di disco. i dead in the dirt, straight-edge, vegan e cazzi vari, arrivano con un suono che sta tra i converge e i brutal truth, suonano cose che arrivano dai napalm death ed hanno un badile in mano che useranno per quei 20 minuti sui vostri denti. suoni perfetti, lerci e compressi alla perfezione. disco grind dell'anno e uno dei migliori da un bel po' di tempo, sta lassù con i burmese dell'anno scorso.


squallor

farò un bell'articolo presto sugli squallor. al momento mi preme ricordare al mondo che esistono e che sono il secondo gruppo più geniale che l'italia abbia mai conosciuto dopo gli area. gli elio e gli skiantos senza di loro non avrebbero potuto esistere come li conosciamo. oggi si fanno le canzoni stupide sul pop e x factor e cagate varie, gli squallor già vomitavano su tutta quella roba 40 anni fa ed erano tra i personaggi che quella roba l'hanno creata. (vi dicono nulla montagne verdi, luglio o nessuno mi può giudicare?)
capolavori come tromba, vacca, palle o cappelle non vanno dimenticati ma tramandati ai posteri come fulgidi esempi di come la volgarità e il turpiloquio possano diventare arte dissacrante ed eterna. e a pensare a quanta gente non li conosce soffro.
madonna carretera come soffro.


sun and sail club - mannequin

a me sinceramente i fu manchu non hanno mai detto granché. carini, simpatici ma piuttosto inutili per cui non mi ero interessato troppo a questo disco, se non per il fatto che è uno dei rari gruppi ad avere in formazione tre membri di cui due omonimi: scott reeder, ex batteraio dei kyuss, e scott reeder, attuale bassista dei fu manchu. tutto questo nasce però da bob balch, chitarrista dei fu manchu che si è ritrovato con dei pezzi scritti ma nessun progetto che potesse volerli. mentre cercava un cantante ha deciso di fare lui le voci con un vocoder. il risultato è semplicemente eccezionale: riff che svisano dai manchu ai kyuss ai voivod, metallica, slayer e quant'altro, con un tiro micidiale e la voce di mr.roboto per tutto il tempo. bellissimerrimo.

ayreon - the theory of everything

lungo, pretenzioso, annacquato, insipido, già fatto, già sentito. no grazie.


katatonia - dethroned and uncrowned


è una bella idea quella dei katatonia, esplorare il loro lato più intimo escludendo distorsioni e batteria e tenendo solo layer di chitarre acustiche, synth e la sempre estatica voce di jonas. personalmente però avrei apprezzato molto di più un disco di inediti scritti apposta per questa veste piuttosto che questo rimaneggiamento di "dead end kings" dell'anno scorso. che funziona anche eh, si ascolta volentieri e quando colpisce davvero lo fa bene (buildings, the one you are looking for, first prayer) ma poi alla fine se ho voglia di quei pezzi riascolto l'originale. bravi, bell'idea, ora fatelo davvero però.

giovedì 17 ottobre 2013

nanodischi #8: settembre/ottobre



e dopo una lunga pausa, per motivi chenonciavevovoglia, ecco tornare i nanodischi per voi. a breve potrei ricominciare anche a scrivere davvero, chissà. ho lì in fila pronti pronti i katatonia, i carcass, i pearl jam e tanta altra bella roba, dovrei trovare tempo e voglia di parlarvene. magari succederà. se no, ancora nanodischi.

toto - isolation

per anni ho ignorato tutta quella parte di carriera dei toto senza bobby kimball alla voce. questo è il periodo in cui per questo motivo mi sento più stronzo del solito. in particolare mi sono innamorato follemente di isolation, probabilmente perché non è per nulla tamarro. frederiksen alla voce va su e giù come je pare e regala il proverbiale tocco in più a pezzi da mille come carmen, angel don't cry e soprattutto la grandiosa lion. vivaviva i toto.

devin townsend project - the retinal circus

non sembra aver preso una gran piega ultimamente devin. dopo l'inutilità sciapa e buttata lì di epicloud, torna sul mercato con un doppio live sul quale si potrebbe parlare per ore. non lo farò, mi limiterò ad esporvi il mio punto di vista: una scaletta di 25 pezzi che non ha neanche un pezzo di terria ed uno solo di ocean machine è una presa per il culo. se a questo aggiungete ben 5 pezzi da epicloud, 3 da ziltoid… capite che il tutto molto probabilmente rende meglio su video che su cd. il suono è ottimo e l'utilizzo di un coro vero rende un po' più realistico il live, di solito infarcito di basi. pessima la ripresa dei pezzi degli strapping young lad, un insulto al loro valore originale. no no.

metallica - through the never

e a proposito di live, c'è chi spacca culi sempre e comunque. se pensate che i metallica non siano tra questi, potete cambiare blog anche adesso. through the never è GIGANTESCO, la scaletta è stupenda e il tutto è suonato addirittura bene (non ci è ovviamente dato sapere quanto sia stato ritoccato il prodotto). se lo mettete in macchina potreste non toglierlo mai più.

rush - vapor trails remixed

erano anni che i tre canadesi parlavano di remixare vapor trails ed oggi l'hanno finalmente fatto. quando il disco è uscito nel 2002 anch'io ero rimasto stranito dal suono particolarmente sporco e crudo che aveva l'originale. inoltre ho sempre pensato che il mastering fosse stato fatto in modo un po' troppo audace e quei clip digitali davano fastidio in più punti. qui però il lavoro è stato radicale ed il disco ha letteralmente cambiato faccia, ripulito al limite del troppo, nonostante il nuovo suono scintillante faccia risaltare molto meglio le singole parti dei tre. a voi la decisione tra le due versioni, io per ora resto con quella originale.

decemberists - long live the king

tra tutta la roba che hanno fatto questi alcolizzati dell'oregon, ultimamente son tornato ad ascoltare a ruota i loro primi dischi. per questo ora vi parlerò del loro ultimo ep prima dell'attuale stato di ibernazione. 
long live the king è abbastanza trascurabile nel suo insieme, non aggiunge nulla di particolare alla produzione della combriccola. contiene però al suo interno quelle che sono a mio parere due delle loro migliori composizioni in assoluto: e.watson, con i suoi richiami piuttosto forti alla tradizione west coast, da csny e dintorni per intenderci, e burying davy, dall'andatura sbilenca e marinaresca, solcata da chitarre straziate. procuratevelo anche solo per queste due canzoni. (sentitele dal link in fondo)

arctic monkeys - am

il disco prima degli arcti monkeys era unammèrda. lento, molle, privo di ispirazione o guizzi particolari e soprattutto privo di canzoni. oggi gli inglesi ci riprovano e riescono a riprendere il timone con mano piuttosto decisa. purtroppo perdono moltissimo in inglesaggine (a partire da un accento ripulito e quasi fighetto per arrivare ai testi) ma ritrovano almeno in parte il tiro ritmico perduto per strada e riescono ad azzeccare una buona serie di ritornelli divertenti retti da bei riff desertici che tanto devono ai qotsa.

blackfield - iv

questo disco è veramente una palla al cazzo. ci tenevo a farvelo sapere.

neil young (& pearl jam) - mirror ball

per concludere, altro disco riscoperto. collaborazione del '95 tra il veterano neil young ed i giovinciuelli pearl jam, mirror ball è uno di quei dischi che ti aprono in due anche solo col loro suono. sporco ma morbido, pieno ma a tratti quasi etereo, caldissimo e valvolare in ogni sua sfumatura. a questo aggiungete canzoni pazzesche come act of love, i'm the ocean o downtown ed otterrete uno dei dischi "semplicemente rock" più puri e genuini mai sentiti. un disco che va consumato.

neil young (& pearl jam) - mirror ball: http://grooveshark.com/#!/album/Mirror+Ball/147789

mercoledì 9 ottobre 2013

fates warning, "darkness in a different light"



vi ricordate quel tempo in cui alcuni gruppi metal avevano capito che potevano usare il cervello per fare la loro musica preferita? parliamo degli anni tra il 1986 e il '92-'93 circa e quei gruppi americani avrebbero cambiato la faccia del metal per sempre. 
la triade che viene sempre (e giustamente) citata in questi casi è quella formata da queensryche, dream theater e fates warning, anche se a mio parere più che i dream andrebbero ricordati gruppi come i grandiosi crimson glory o più "semplicemente" i sempiterni savatage del capolavoro gutter ballet, se non addirittura i vicious rumors di dischi come welcome to the ball.
ma non divaghiamo troppo. ryche, dream e fates warning si diceva. vediamo un attimo dove sono oggi questi gruppi:

  • i queensryche si sono resi protagonisti di una delle più grosse pagliacciate mai viste nel metal, la cacciata di geoff, le due formazioni che si contendono il nome, todd la torre che ci dimostra che sì, la clonazione umana è possibile, dischi inutili e riciclati come "queensryche" o "frequency unknown", roba che anche a chiamarla "disco" bisogna sforzarsi.
  • i dream theater sono quasi 10 anni che non riescono a fare un disco decente e dopo l'analità di black clouds si son gettati anche loro nella buffonata con la dipartita di portnoy, l'ingresso di mangini e un disco totalmente anonimo, per non parlare della nuova oscenità disneyana pubblicata proprio in questi giorni.
  • i fates warning spaccano il culo.

seriamente. come sempre: poca scena, tanta sostanza e tanta voglia di non rifare mai lo stesso album, anche se questo drakness è probabilmente il loro disco più revival di sempre.
sì perché nel 2013, dopo l'esperienza osi che ci ha regalato due dischi immensi (i primi due) e dopo il buon progetto arch/matheos, in verità una reunion dei primi fates warning, jim matheos torna a tuffarsi in pieno nel metallo e lo fa come al solito con un'intelligenza davvero invidiabile.

il punto di partenza è da ricercare in dischi come perfect symmetry, no exit o il capolavoro parallels, quelli che ancora erano indiscutibilmente metal. oggi la band, con il ritrovato frank aresti alla seconda chitarra e bobby jarzombek a sostituire il defezionario mark zonder, rilegge proprio quelle sonorità alla luce di un suono moderno e algido e dell'esperienza fatta negli anni, deflagrando in partenza con una "one thousand fires" che non lascia alcun dubbio sullo stato di forma del gruppo.
ray alder è invecchiato e gli acuti di eleventh hour o ivory gates sono una memoria lontana ma quello che è rimasto è il suo inconfondibile gusto melodico e il pathos con cui interpreta ogni canzone (e l'intermezzo falling è lì a dimostrare tutto questo). jarzombek è meno "ingegnere" di zonder ma decisamente più pesante come tocco e questo disco è perfetto per lui e il suo doppio pedale mai domo.

a mio parere i momenti di massima intensità si trovano nel singolo firefly, dal ritornello catchy che riporta ad alcuni momenti di fwx, nella bellissima o chloroform, attraversata da una sottile linea lisergica che profuma di osi lontano un miglio e soprattutto in lighthouse, apice del disco con la sua psichedelia tesa come una corda e pronta e trascinare nell'oscurità di un pezzo scritto in maniera incredibile ed arrangiato in modo stupendo. (da notare la totale assenza di tastiere e synth in tutto il disco, cosa che non succedeva da inside out probabilmente)

ci sono poi i ma, che ovviamente arrivano puntuali.
il più grosso e clamoroso è il plagio inaccettabile che si svolge nell'intro di into the black, palesemente rubata di forza da the drapery falls degli opeth. davvero non capisco il perché di questa scelta, mi ha fatto incazzare non poco, nonostante il pezzo si sviluppi poi in maniera eccezionale e risolva in un altro ritornello strappamutande da applausi. vabè.
simile è la critica che viene da fare a i am, a tratti davvero troppo troppo tool per passare inosservata.
e già che siam qui a cagare il cazzo, diciamolo: and yet it moves, che chiude il disco coi suoi 14 minuti, non è still remains. nemmeno lontanamente. non che sia un brutto pezzo ma, come anche wish su fwx, fa pensare ai tempi in cui i dischi dei fates warning si chiudevano con perle assolute come the road goes on, part XII, ivory gate of dreams o la già citata still remains. parliamo di capolavori veri e propri con cui questa nuova arrivata fa un po' fatica a confrontarsi e alla fine sa un po' di paraculata: è il pezzo lungo alla fine del disco.

ma tutto ciò non intacca assolutamente il valore di questo lavoro. e non è valore dovuto solo al fatto che loro sono gli unici ad aver mantenuto la dignità e l'integrità. c'è indubbiamente anche quello ma di base stiamo parlando di un discone che può insegnare a frotte di ragazzini come si fa a suonare prog metal moderno, intelligente ed inaspettatamente orecchiabile, e scusate se è poco per un gruppo di 50enni con più di 30 anni di carriera alle spalle.
forse oltre ai ragazzini di cui sopra, anche i colleghi di un tempo dovrebbero chiedere consiglio a matheos e amici per i loro prossimi dischi, si sa mai che una vaga parvenza di dignità e onestà la si riesca a recuperare.

venerdì 2 agosto 2013

nanodischi #7: giugno-luglio 2013



visto che a giugno me ne sono allegramente dimenticato, eccovi un'edizione doppia di nanodischi con un sacco di roba da sentire (o no) per dimenticare il caldo e far finta che quest'estate non sia mai successa.

kristoffer gildenlow - rust (2013)

finalmente, a 7 anni dalla sua dipartita dai pain of salvation, ecco arrivare il primo solista di kristoffer gildenlow, fratello di daniel e rimpianto bassista di una rimpianta formazione dei bei tempi che furono.
in questo disco kris dà vita a dei quadretti acustici molto intensi, vicini alle atmosfere che furono di brani quali "dedication" o "undertow", la parte propriamente triste e malinconica dei pain. gli arrangiamenti sono abbastanza vari e riescono a stemperare l'intensità del disco, interpretato da kris anche alla voce, con delle somiglianze invero estreme con lo stile di canto del fratello (tanto da farmi pensare all'inizio ad una collaborazione dello stesso daniel, ascoltate "overwinter" per credere). in ogni caso gran bel disco, non sperate vi lasci una gran voglia di vivere quando finisce.

these new puritans - field of reeds (2013)

mi riprometto di farne una recensione vera e propria ma mi serve ancora tempo, per ora vi segnalo quello che è senza dubbio alcuno uno dei dischi massimi di questo 2013, un'opera che oscilla tra (post)rock, classica da camera, ambient e pop e che in vari momenti ricorda la classe e le costruzioni del miglior david sylvian profumando anche di canterbury, di talk talk (quelli di laughing stock) e di post primi '90, tra i tortoise e i bark psychosis (co-produce proprio graham sutton).
già dai nomi avrete capito che non è roba facile facile da macchina: serve un divano, un buon impianto, del tempo e voglia di entrare in questo mondo tutto storto. se ci riuscite non credo proprio ve ne pentirete.

neil young - rust never sleeps (1979)

forse l'ultimo vero capolavoro di young, prima che gli anni 80 facciano il loro dovere e massacrino cultura, arte e musica mondiali.
le ballate sono crude e si fanno spazio nello stomaco per rimanerci, le scariche elettriche sono letali e lancinanti, sempre merito anche dei perfetti crazy horse che fanno da solito terreno per le corse del lunatico canadese.
my my hey hey è il perfetto simbolo del disco: rassegnata e depressiva nella veste acustica che apre il disco, straziante e marcissima in quella elettrica che lo chiude.

all pigs must die - nothing violates this nature (2013)

parlando di gente a cui piace venire e farci del male fisico, ecco tornare gli all pigs must die, side-project che vede nelle proprie fila anche il batteraio dei converge ben koller.
la loro idea è semplice: veniamo lì e vi diamo un sacco di botte, più o meno come hanno fatto (meglio) i converge dell'ultimo devastante all we love we leave behind ma con un accento più marcato sulle sonorità metal piuttosto che quelle "core" (che comunque non mancano). ottimo e straconsigliato per le code in tangenziale sotto il sole.

oliva - raise the curtain (2013)

il precedente "festival" mi aveva stupito per la ritrovata ispirazione del mio più grande mio mio amico obeso del mondo, olivone bello. questo disco no. è noioso, è trito e ritrito, le idee son sempre le stesse rigirate e rifrullate in altro modo ma nulla è aggiunto e nulla è tolto. in più ogni tanto l'idea di jon di suonare tutto da solo su molti pezzi, batteria compresa, gioca a suo sfavore privando i brani stessi di groove e tiro che avrebbe reso il tutto un po' meglio. peccato, occasione sprecata.

orphaned land - all is one (2013)

dopo due mastodonti come mabool e orwarrior ci si poteva aspettare che gli orphaned land cercassero di ritrovare un minimo di forma canzone. la mia speranza era che lo facessero in acustico o comunque spogliandosi in parte dei mille orpelli che adornavano (pienamente a ragione) i due dischi precedenti. purtroppo non è andata così: all is one è un disco sovrarrangiato, iperprodotto, ridondante e magniloquente; fin troppo. personalmente l'ho trovato stucchevole in più momenti, oltre ad avermi dato l'impressione di fare un sacco di scena ma avere poi poca sostanza, sempre a differenza dei due capolavori dei 10 anni scorsi. come per jon oliva, peccato, ci credevo molto.

philip h. anselmo & the illegals - walk through exits only (2013)

per chiudere "l'angolo della fetecchia", ecco a voi quello che è probabilmente il peggior disco del 2013 ad oggi, il tanto sventolato esordio solista di phil anselmo (che non sto a spiegarvi chi sia, se non lo sapete forse state leggendo il blog sbagliato).
metallaccio becero ed estremo, registrato col culo e suonato peggio, con filippo che ci sbraita sopra ma sembra svogliato, la sua voce non è né quella del cane bastonato dei down né del tamarro cocainomane incazzaterrimo dei pantera, è molle e sciapa. questo è decisamente un disco di cui potete fare a meno.

purson - the cirle and the blue door (2013)


ecco per concludere una bella sorpresa direttamente dall'amico lee dorrian: è la sua rise above a produrre e distribuire nel mondo questi purson, manica di fattoni inglesi che recupera le sonorità hard prog primigenie che furono di gente come black widow, high tide o anche i primi king crimson, unendolo a ventate psichedeliche e confezionando il tutto in un abito vintage che più vintage non si può con al timone la voce esoterica e stralunata di rosalie cunningham. questo merita proprio un po' di ascolti, soprattutto nel torpore dell'inferno che si sta abbattendo su di noi.

lunedì 29 luglio 2013

roger waters, "the wall live", padova, 26.07.2013



mi ci è voluto qualche giorno prima di poter scrivere di questo concerto. il primo impatto è stato troppo travolgente per poter essere in qualche modo obiettivo, l'unica frase che avevo in mente era "io non ho mai visto una cosa del genere". così ho lasciato passare qualche giorno per poterlo raccontare meglio, il problema è che di base l'opinione non è cambiata in alcun modo.
io una cosa del genere non l'ho mai vista.

solo l'ingresso nello stadio per trovarsi di fronte ad un palco di CENTOCINQUANTA METRI PER TREDICI è un momento importante. l'imponenza del muro mette in soggezione anche senza che nessuno stia suonando. quando le luci si spengono e parte l'audio dell'epico finale dello spartacus di kubrick tutto assume un aria minacciosa. poi esplode in the flesh?, inizia ad esplodere il cielo e io non ho più capito un cazzo. dopo 5 minuti c'era un aereo che si è abbattuto sul palco.
posso dire che la prima metà di spettacolo è stata più concerto mentre la seconda più teatrale. nonostante la mia eterna perplessità per i concerti negli stadi, il suono era perfetto e l'impianto quadrifonico ha regalato momenti stupendi con tutto il pubblico a girarsi per vedere da dove cazzo arrivasse quell'elicottero.
waters compie 70 anni quest'anno. ha fatto due ore e passa di spettacolo cantando, suonando, correndo e interpretando i personaggi del concept e questa cosa la porta in giro da tre anni di fila. non è proprio cosa da tutti.

vogliamo per forza di cose dire qualcosa di brutto? dai sì.
in primis si ringrazia chiunque abbia avuto l'idea geniale di mandare 45000 persone da tutta italia tutte insieme in una città che non è in alcun modo attrezzata per gestire la situazione. da cui ovviamente ore e ore di coda, incidenti e un casino indecente, complimenti all'ignoranza e l'incompetenza di chiunque abbia fatto questa puttanata.
poi posso parlare delle solite persone che "eh però i pink floyd". amici, i pink floyd non esistono più, siete venuti a vedere roger waters con la sua band. non c'è la chitarra di gilmour così come non ci sono mason né tantomeno il compianto wright (che anche se ci fosse stato non è che sarebbe cambiato nulla. è comunque freddino e bluastro al momento.).
è vero, è impossibile non pensarci quando partono gli assoli di another brick o comfortably numb ma questo non cambia i fatti: questo è uno show di roger waters, su roger waters, con roger waters. e lui il suo show sa come fartelo ricordare. io "che i pink floyd non ero nemmeno nato", gli sarò eternamente grato per avermi dato questa possibilità.

il professore e la madre vengono gonfiati nei rispettivi brani, il coro di bambini canta la sua strofa, il muro viene costruito un mattone alla volta fino ad oscurare il palco e per la seconda parte si trasforma in un gigasupermegacazzoquantoègrosso schermo sul quale si alternano la storiche immagini di scarfe alternate a nuove sequenze, lo storico assolo in cima al muro, la band ricostruita davanti ai mattoni per la fanfara di in the flesh, il coro, the trial e poi esplode tutto e il muro crolla. 
il saluto di outside the wall coi musicisti tra le rovine del mostro è il momento più umano di tutto il concerto e allevia la tensione dopo… dopo la cosa. quello che è stato. cos'è stato? non lo so. so che era tutto gigante e intanto suonavano uno dei dischi più unici della storia e c'era un maiale volante. so che la mia cronaca non è molto precisa ma del resto il disco lo conoscete (se non lo conoscete siete brutte persone), lo spettacolo non posso raccontarvelo a parole e foto non ne ho per cui quello che voglio dire è che roger waters sarà una persona di merda, un egoista egocentrico ipocrita e tutto quello che si vuole ma i suoi stupidi fan li sa accontentare. 
un'esperienza totale.


io una cosa del genere non l'ho mai vista.

venerdì 5 luglio 2013

neurosis, magnolia, segrate, 4.7.2013




ce ne sono di gruppi che ci provano. provano a fare questo, provano a fare quello. prendi gli ufomammut, ad esempio. son simpatici, son bravi ragazzi, ci provano ma al terzo disco erano già senza idee, in più con un batterista completamente privo di groove o inventiva e con un pessimo suono. il loro contratto con la neurot rimane uno di quei grandi quesiti dell'era moderna ma li porta, per la seconda volta, ad aprire per i neurosis in italia. son migliorati, hanno un suono simpatico e catchy ma i pezzi sono quello che sono. sufficienti.

per fortuna ce ne si dimentica in fretta: salgono i neurosis in quel del magnolia. ora, ammetto che ero molto molto molto molto molto molto molto molto MOLTO contrario al fatto che suonassero in quel posto che un paio di anni fa ci ha fatto "sentire" gli eyehategod a volume radiolina. però già il solomacello di quest'anno, per quanto avesse una lineup oscena, triste e insignificante (grandi vincitori gli zeus che han fatto il culo a tutti), ha rivelato dei suoni molto migliorati e un volume quantomeno degno di essere definito tale.
infatti non c'è lamentela al riguardo: i suoni sono perfetti, opera del sempre eccezionale tecnico della band, e il volume si fa notare.

per il resto non ho parole. questi 5 (assenti le proiezioni di graham che ha lasciato la band nel 2012) salgono sul palco e devastano l'aria attorno a loro, la violentano con vibrazioni ancestrali provenienti da mondi sconosciuti. le voci di kelly e von till squarciano lo spazio con una ferocia che ha dentro di sé tutta la disperazione dell'umanità mentre roeder si conferma batterista micidiale, generatore di una potenza mastodontica nonché portatore di quella vena tribale ritrovata recentemente dal gruppo. landis è un personaggio a sé ma i suoi synth riempiono ogni minimo spazio lasciato vuoto con suoni dei grandi antichi che ci osservano da oltre le stelle mentre edwardson è l'ancora col pianeta terra, solida base di bassi megagigaultrapropriogrossi.

essendo il tour del disco, ben quattro pezzi vengono suonati da "honor found in decay" tra cui spiccano, come da disco, la profonda at the well e la lancinante bleeding the pigs, uno dei due momenti più alti di tutto il concerto. l'altro è stato the tide. hanno fatto the tide. ho pianto. c'era von till che sussurrava e kelly che urlava e i suonini e poi era tutto FOTTUTAMENTE GIGANTESCO. 
poi le mazzate di times of grace e la pissichedelia di distill. poi, siccome che loro ci vogliono bene, giustamente chiudono il concerto su una nota lieta, sparandoci in faccia una locust star che ha un impatto equivalente a QUESTO che vi arriva in faccia.

per farla breve, in tanti ci provano, in pochi ci riescono, nessuno lo fa come i neurosis. su disco ultimamente possono lasciare perplessi, dal vivo sono una sicurezza, un punto fermo su cui poter contare sempre: se avete voglia di farvi radere al suolo mente, anima, corpo e spazi ancestrali, andate a vedere i neurosis, non rimarrà che una poltiglia verdastra di voi.


setlist:

my heart for deliverance
at the end of the road
times of grace
distill (watching the swarm)
at the well
the tide
we all rage in gold
bleeding the pigs
locust star

martedì 25 giugno 2013

alice in chains, "the devil put dinosaurs here"



quella che all'inizio sembrava una reunion, si è rivelata poi essere una sfida.
gli alice in chains, riformandosi senza layne, hanno sfidato il mondo a testa alta e la loro sfida l'hanno vinta al primo turno, con un "black gives way to blue" che era impensabile aspettarsi. bravi applausi, conclusi i giochi? no. ovviamente no.
non avendo più nulla da dimostrare ed essendosi lasciati indietro tutti i fantasmi che infestavano bgwtb, gli alice tornano con un nuovo disco e ancora una volta vincono.

all'inizio non sono rimasto entusiasta, il suono è davvero tanto simile a quello del disco precedente. con gli ascolti tuttavia, una volta che le canzoni assumono identità precise, si nota come il nuovo disco sia ancora più lento ed opprimente del suo predecessore, tendenza in contrasto con le voci che invece si fanno ancora più ariose e praticamente non sono mai meno di due. quindi abbiamo di base un disco quasi sludge con sopra delle armonie vocali apertissime e catchy in maniera storta ed inquietante.

"hollow" è perfetta per inquadrare quanto appena detto, così come l'incredibile "phantom limb" o la devastante "stone", dal riff pesanterrimo.
in mezzo a questa evoluzione/non-evoluzione si trovano poi delle gemme che spiccano per particolare ispirazione. su tutte senza ombra di dubbio spicca la title-track, cupa, inquietante, paranoica e strascinata, uno dei migliori brani degli alice in assoluto. a seguire subito "lab monkey", altro gioiello col suo equilibrio perfetto di marciume, angoscia e aperture melodiche a sorpresa. fantastica poi "pretty done", sorta di rivisitazione di quello che fu il suono dell'omonimo album del '94, sbilenco e rancido.

per il resto non si trovano canzoni brutte, assolutamente, ma nessun'altra (a parte "scalpel" forse) riesce a distiguersi davvero e questo è il punto negativo dell'album: nonostante non si trovino scarti o pezzi brutti, soprattutto nella seconda metà il disco tende ad adagiarsi su ciò che ha già fatto e non riesce a convincere del tutto, lasciando l'impressione, più o meno fondata, di trovarsi davanti al disco meno bello della discografia del gruppo (causa di questo è anche l'eccessiva durata del tutto, 67 minuti non sono pochi). "meno bello", ripeto, non vuol dire brutto, ma bisogna sempre ricordarsi di cosa c'è stato prima. non è una questione di formazioni diverse o affetto per layne, semplicemente gli alice in chains hanno esordito con un trittico come facelift-dirt-aic che non può essere battuto, in nessun modo.

se non vi aspettate una rivoluzione, non rimpiangete il passato e se sapete dare atto del coraggio mostrato da questi signori, buttatevi nel disco e non ve ne pentirete.


giovedì 20 giugno 2013

queens of the stone age, "...like clockwork"




avevo perso le speranze, lo ammetto candidamente. lullabies to paralyze era noioso, era vulgaris era una cagata di disco. lo sfogo dei them crooked vultures ci aveva restituito josh homme in gran forma a tirare le redini di un progetto che ancora mi chiedo perché non abbia avuto un seguito.
e invece ora tornano i queens of the stone age e lo fanno con quello che è, inopinabilmente, il loro miglior disco dal quel songs for the deaf che ha fatto tremare il mondo intero.
non a caso questa ventata di qualità riporta alla corte delle regine anche un nome che contribuì a rendere proprio songs quello che era: dave grohl. l'uomo più felice e fortunato del mondo infatti siede dietro le pelli per 5 dei 10 pezzi presenti sull'album. il resto è stato suonato dal defezionario joey castillo prima di lasciare il gruppo, tranne la title-track che vede già il nuovo batterista ufficiale della band, quel jon theodore che coi mars volta fece scintille su dischi come de-loused e frances.
impossibile poi non parlare della sfilata di ospiti che homme invita a partecipare: dal figliol prodigo nick oliveri a mark lanegan, alex turner, trent reznor, jake shears per arrivare fino a elton john che presta i tasti d'avorio a "fairweather friends", uno dei pezzi più intensi e meglio riusciti del disco (co-accreditata a lanegan).

tuttavia questa parata di freak non riesce a spostare l'attenzione dalle canzoni, anche perché ogni comparsata è quasi in incognito a livello di suono: reznor canta parti del ritornello della bellissima "kalopsia" ma ora che te ne accorgi ha già smesso, shears è tuttora non pervenuto nella granitica apertura di "keep your eyes peeled" così come turner in "if i had a tail", classico groove rock alla qotsa.
così non ci si rende quasi conto che altri due momenti massimi del disco come il primo singolo "my god is the sun" e la splendida "i appear missing" (forse l'apice dell'album) sono in realtà prodotti della band "semplice", senza nessuno a partecipare con urla, schiamazzi o pianoforti pretestuosi e ciò è solo bene. perché è giusto ricordare che homme non è uno stronzo, ce la mette tutta per farcelo credere, si impegna per fare scelte davvero sbagliate e dischi osceni come era vulgaris, ma poi fa queste figate e ti ricordi che alla fine era il chitarrista dei kyuss e sotto sotto gli vuoi ancora bene. (nonostante un "booklet" del disco che è un furto bello e buono, voto 2 al packaging)


vogliategli bene anche voi, questa volta se lo merita.

martedì 18 giugno 2013

black sabbath, "13"



avviso subito che questa non sarà una recensione oggettiva e professionale. (strano, eh?)
il motivo? dai, su. non scherziamo.
cathedral, down, candlemass, my dying bride, pentagram, saint virus, electric wizard… potrei andare avanti per una decina di paragrafi ad elencare i gruppi che senza i black sabbath non sarebbero mai esistiti. non lo farò, li conoscete tutti e se non li conoscete sbagliate.

bill ward non è della partita, per questo o quel motivo non ci interessa in questa sede, quello che ci interessa è che brad wilk suona come il vecchietto inglese non avrebbe mai potuto, visti i problemi fisici e mentali legati all'età. è sicuramente una scelta più che azzeccata visto che il suo percuotere dona un groove notevole a tutti i brani ed una pacca davvero invidiabile. bravo gino.

ora veniamo alle cose serie.
ci si poteva aspettare tutto e niente da questo disco. per quanto mi riguarda ogni aspettativa è stata superata da un album che mette in fila 8 pezzi di cui nessuno manca l'obiettivo: ricordare al mondo chi sono i black sabbath, quelli che quella cosa lì che è il doom la fanno meglio di chiunque altro.

così si parte subito al rallentatore: sia "the end is the beginning" che "god is dead" si crogiolano un (bel) po' nella lentezza funerea prima di lanciarsi in cavalcate terzinate che vi faranno staccare la testa dal collo. "loner" è puro suono '70, riffazzo e groove, ma la prima vera sorpresa arriva con "zeitgeist", ballata spaziale semiacustica basata su una melodia straniante che non può che riportare la mente ai fasti di "planet caravan" o "solitude" e impreziosita da un solo finale di iommi che ricorda a tutti i fan degli opeth da dove vengano certe sonorità. da notare, in questo pezzo come nel resto del disco, come la voce di ozzy sia finalmente scevra dall'iper-produzione dei suoi dischi solisti e ne esca naturale come non la si sentiva da anni. (a questo proposito non si può non citare il lavoro di produzione di rick rubin che riesce a dare un tocco di modernità a un disco che se no rischiava di suonare già sentito) 
"age of reason" punta sull'epicità e, come la conclusiva "dear father", recupera certe tendenze heaven and hell che ormai fanno parte naturalmente del dna del gruppo. "live forever" è probabilmente un pezzo che non farà dormire lee dorrian per un bel po' di tempo, con le sue cascate di suono in slow motion, ma dopo di essa ecco arrivare la vera sorpresa, il pezzo che non avrei mai osato chiedere: "damaged soul". riff che fanno piangere i phil anselmo a letto, wilk scatenato, assoli grezzi e live senza chitarre ritmiche e un'armonica impazzita che urla sopra al macello. questa canzone da sola vale tutto il disco e riscalda i cuori di chi aspettava con impazienza il ritorno del sabba.


i difetti ci sono, non si può negare, ma sono di quei difetti che ti fanno sorridere e non incazzare. sinceramente non avrei potuto chiedere di più dai black sabbath, non avrei neanche osato chiedere tutto questo. eppure loro ci hanno creduto e l'hanno fatto. grazie, black sabbath.


lunedì 3 giugno 2013

nanodischi #6: maggio 2013




sting - bring on the night (1986)

nel 1985 sting partì per il suo primo tour solista, dopo il successo enorme del suo primo album "the dream of the blue turtles". il volpone inglese, tendente sempre più a un jazz-pop d'autore più che al rock dei police, si porta dietro una band da capogiro, con omar hakim e darryl jones direttamente dalla band di miles davis, branford marsalis al sax e kenny kirkland al piano e tastiere. il risultato è un doppio live in cui canzoni e improvvisazioni si fondono per due ore in un circo fantastico e multiforme. 

rush - hold your fire (1987)

i rush degli anni 80 vengono spesso maltrattati da chi li vorrebbe sempre prog e duri come negli anni 70. io li ho sempre trovati geniali anche nel periodo controverso (grace under pressure è probabilmente il mio disco in studio preferito) e "hold your fire" per certi versi è l'apice di questo loro momento. il suono arriva ad un'omogeneità  ed una spazialità indescrivibili, i pezzi si colorano di una melodicità ancora più accentuata e ne esce un disco diverso e quasi solare.

nine inch nails - pretty hate machine (1989)

quando il giovane trent si spostò a cleveland in gioventù, tra un progetto e l'altro iniziò a buttare giù schizzi di canzoni nel suo studio in casa, creando così un demo che attirò l'attenzione della tvt records. grazie al contratto con loro, ecco "pretty hate machine", primo parto ufficiale dei nine inch nails. di quello che succederà poi qui si trovano embrioni ma il disco si muove più su territori synth-pop-rock, tra skinny puppy, depeche mode e ministry con il senso melodico di reznor a fare da collante e rendere brani come head like a hole, terrible lie o sin veri classici. something i can never have è la perla dimenticata, recuperata anni dopo in un toccante riarrangiamento acustico.

monument - the first monument (1971)

unico disco uscito a nome monument (che poi erano gli zior con un nome diverso), "the first monument" è il parto di una notte di jam sessions alcoliche tra quattro amici. è un rock-hard-prog molto oscuro e straniato dal suono caldo e live che ricorda un po' dei black sabbath in versione jam band o dei black widow più prog. consigliatissimo a chi non ha mai abbastanza anni 70.

the mars volta - octahedron (2009)

"octahedron" è un disco di passaggio ma quando uscì non si sapeva di preciso verso cosa fosse quel passaggio. il gruppo arrivava dalla sbornia hard-funk-prog schizoide di "the bedlam in goliath" e qui ritrova il gusto per la melodia più semplice, rinunciando per quasi tutto il disco all'orgia di suoni e tempi dispari degli album precendenti. imperdibili almeno with twilight as my guide, desperate graves e teflon. copernicus invece mostra già i germi di quello che sarà poi il capolavoro "noctourniquet".

bombino - nomad (2013)

dietro a questo buffo nome si cela un tuareg trentenne del niger appassionato di rock blues, deserto e hendrix. questo disco, prodotto da dan auerbach, è il suo terzo e mostra un'ottima capacità da parte del nostro di produrre un desert rock venato spesso e volentieri di blues attraversato continuamente da suoni e profumi esotici della sua terra, creando una commistione particolare e di indubbio interesse. di negativo il disco ha che nella sua durata non riesce a risultare molto dinamico per cui può stufare ma almeno un ascolto dateglielo.





giovedì 16 maggio 2013

steven wilson, "the raven that refused to sing"




ci ho messo un po' prima di scrivere di questo disco, non so di preciso il perché. forse perché dovevo capire dove si collocasse sulla linea che divide la paraculata dal sincero "lo faccio per me".
alla fine ho deciso che questo disco non sta sulla linea, questo disco è quella linea. è contemporaneamente paraculata estrema ed atto ultimo della fuga di wilson dalla modernità.

sicuramente la formazione che lo segue sta più dalla prima parte: holzman-beggs-travis-govan-minneman è un filotto di nomi che fanno tremare nel profondo per il potenziale di ognuno degli individui. chiaramente però senza niente da suonare sarebbero solo nomi e qui entra wilson. curiosamente, nonostante qui si parli, ancora di più che per "grace for drowning", di purissimo progressive rock, il direttore di gruppo somiglia per approccio più a miles davis che a frank zappa. piuttosto che scrivere precise partiture per ogni minima parte suonata dalla band, wilson scrive pezzi al cui interno ogni musicista ha modo di esprimersi e dare il suo tocco inconfondibile.

questo è probabilmente il perno fondamentale che regge l'intero disco: l'abilità di compositore di wilson e la sua capacità di mantenere costantemente tutto unito, coeso e fluido, senza incappare mai in freddi esercizi. l'atmosfera spettrale che permea l'intero album aiuta molto, così come il "concept" sul sovrannaturale ma sarebbe un crimine non notare anche come la voce e la tecnica vocale di wilson stesso siano migliorate esponenzialmente negli ultimi tempi e lo portino ad accentuare un aspetto "patetico" (nel senso buono) pressoché inedito nella sua discografia. ne è prova perfetta the raven that refused to sing, ballata posta in chiusura, probabilmente miglior pezzo dell'intero album grazie ad un lavoro di squadra perfettamente simbiotico: il tocco al pianoforte di holzman è da lacrime, così come gli ingressi in glissando di travis e il suono strappamutande di govan, una canzone perfetta.

non che il resto sia troppo da meno eh. anche i momenti più frenetici e "duri" come luminol o the holy drinker, pur avendo assoli e obbligati e cazzi vari, non si perdono mai nell'assolo fine a se stesso ma lo usano piuttosto per alzare o abbassare le dinamiche o per fluire in una parte successiva con estrema naturalezza.

ho detto dinamiche. qui arriva l'aspetto forse ancora più mostruoso del disco: il suono.
nella parata di nomi prima ne ho evitato apposta uno per tenermelo da parte: l'ingegnere del suono è alan parsons. unendo questo particolare all'eterna lotta di wilson contro le compressioni estreme e la loudness war, il risultato è indescrivibile. l'escursione dinamica è anche aiutata dall'assenza di mastering che protegge l'effetto ottenuto dal registrare tutte le tracce base live in studio; ma per capire bisogna ascoltare in cuffia lasciandosi cullare dalle dita sui tasti nell'assolo di piano di luminol, dal tocco elegante di govan in drive home o nella già citata the raven.

ma poi, di fatto, come suona il disco? questo è un altro particolare che mi ha fatto aspettare prima di scriverne. di base ci sono UN SACCO di genesis e king crimson su tutti. impossibile però non sentire gli yes, i gentle giant, i pink floyd... wilson si è divertito più che mai a battersene la ciolla di modernismo, avanguardia e quant'altro e si è gettato nella sua collezione di vinili per tirarne fuori tutto quello di cui aveva voglia. come se questo disco fosse la controparte elettrica di storm corrosion. da questo punto di vista, il confronto con il monumentale "grace for drowning" è perso, ma per coesione, suono, composizione e produzione in generale, "the raven that refused to sing" è un altro apice della carriera dell'inglese. è un disco perfetto, se solo riuscite a dimenticarvi del fatto che è uscito nel 2013.


http://grooveshark.com/#!/album/The+Raven+That+Refused+To+Sing+and+Other+Stories/8602888

martedì 14 maggio 2013

elio e le storie tese, "l'album biango"



"studentessi" era stato una sorpresa davvero bella da parte degli elio. dopo un disco strano come "craccraccriccrecr" e uno brutto come "cicciput", la ventata di ispirazione di "studentessi", nella composizione come negli arrangiamenti e nei testi, aveva rialzato in modo deciso le quotazioni dei milanesi.
questa volta non è andata così.

la scorsa volta a sanremo il gruppo ha dato vita ad un qualcosa che è rimasto nella memoria collettiva italiana: 'la terra dei cachi' è diventato istantaneamente uno dei brani più conosciuti e significativi della musica italiana, anche per chi considera gente come vasco rossi o ramazzotti come "musica di qualità".
nel 2013 invece il gruppo si presenta con due brani, uno bello e uno inutile. quello bello viene scartato alla prima serata, quello inutile arriva secondo al festival. 'la canzone mononota' è un esercizio di stile vuoto e ridondante che stupisce al primo ascolto ma al secondo ha già rotto il cazzo. 'dannati forever' invece, qui posta in apertura del disco, è un bel pezzo con un gran tiro, un testo simpatico seppur non eccezionale e un'arrangiamento tutto sanremese.

ma "l'album biango" purtroppo non mantiene il livello del suo inizio. il gruppo va perlopiù sul sicuro, senza mai mostrare grossi picchi di ispirazione ma rasentando troppo spesso il fondo.
funzionano bene 'amore amorissimo' e 'il ritmo della sala prove' (la quale snocciola una serie di verità assolute sulle sale prova che chiunque abbia suonato uno strumento nella vita non potrà non apprezzare), benissimo 'luigi il pugilista' e il 'tutor di nerone', senza dubbio le due migliori canzoni del disco. poi però canzoni scialbe e inutili come 'enlarge your penis', 'una sera con gli amici' o 'lampo' spezzano il ritmo senza infamia né lode. vero, senza mai cadere in basso come 'shpalman', però ci vanno vicine. in più sul finale il disco va di nuovo ad inabissarsi nell'esercizio di stile fine a sé stesso con 'come gli area' e 'complesso del primo maggio' che, esattamente come 'la canzone mononota', fanno sorridere ad un primo ascolto ma poi si rivelano come degli effetti speciali di michael bay: grandi esplosioni e niente film. mancano melodie ispirate e genuine idee per i pezzi, architetture costruite per far scena e nascondere la poca sostanza alla base (un po' come tutta la carriera dei queen).

stupendo invece il pezzo effettivamente suonato dagli area, 'reggia (base per altezza)',così come bellissime sono molte delle intro. il vero colpo di genio in questo senso è la ghost track: una versione da 7 minuti della canzone mononota per sola voce e cassa in 4. inutile invece la successiva riproposizione di 'come gli area' in versione strumentale (guarda caso come fu per 'pagano' su "cicciput"...).

poco altro da dire e questo è il vero problema: "l'album biango" è un disco molle, non troppo ispirato e con pochi momenti davvero entusiasmanti. peccato, tornerò ad ascoltare "eat the phikis".


http://grooveshark.com/#!/album/L+Album+Biango/8925980

nanodischi #5: aprile 2013


sì sì lo so, sono in ritardo, ma son stato senza pc per due settimane perché l'ho preso a pugni. ecco a voi il riassunto del mio aprile.


nevermore - dreaming neon black (1999)

i nevermore, insieme ai grip inc., erano l'incarnazione suprema del metallo post-2000. più metal di loro nessuno.
questo disco unisce al suono pesanterrimo del gruppo di seattle (uno dei palm muting più devastanti di sempre) un concept disperato interpretato da warrel dane come mai più gli riuscirà. melodie storte su ritmiche tritaossa, momenti di psichedelia metallica e tante mazzate.

grip inc. - nemesis (1997)

i grip inc., insieme ai nevermore, erano l'incarnazione suprema del metallo post-2000. più metal di loro nessuno.
la chitarra di waldemar sorychta (attento e intelligentissimo produttore) macina riff su riff senza mai andare a vuoto, col suo "vago" retrogusto slayer sempre in agguato ma gli eroi del disco sono gus chambers e la sua voce che è violenza pura e dave lombardo che col suo groove inconfondibile traina tutto il gruppo con un suono che è pura goduria.

litfiba - trilogia 1983-1989

per chi si fosse perso i concerti all'alcatraz (compreso me, stronzo), ecco arrivare un bel doppio live con la scaletta completa di quando i litfiba, riuniti ad antonio aiazzi e gianni maroccolo, hanno ricordato i bei tempi andati fermandosi all'89. le canzoni le conoscete e se non le conoscete conoscetele (su rieduchescional chiannèl), il live è molto bello, peccato che abbiano sostituito un grandissimo batterista (morto) come ringo de palma con un cane (un ex batterista degli atroci dal suono terribile e totalmente privo di groove).

red hot chili peppers - blood sugar sex magick (1991)

sempre bello tornare ai 14 anni. solo che adesso ti accorgi del mix incredibile dell'album, dei suoni pazzeschi di batteria e capisci un po' di più di quello che fa il basso. il risultato, alla fine, è lo stesso di quando avevi 14 anni: ascolteresti blood sugar da mattina a sera.

wolfmother(2006)

a volte ci vuole un po' di revival fine a sé stesso e, per quelle volte, il mondo ci ha regalato i wolfmother. led zeppelin e black sabbath su tutti ma anche mc5, grand funk, stooges, who e tutte quelle altre "ovvietà" che vi potete aspettare, confezionate con un suono potente e sporco "finto vintage" pronto per essere ficcato nell'autoradio e non uscirne più fino alla fine dell'estate.

spock's beard - brief nocturnes and dreamless sleep

gli spock's beard ho smesso di seguirli dopo snow. con quel disco han dato tutto, neal morse ha dato anche il cervello (a gesùbambino). gli eventi seguenti mi hanno allontanato dalla band che oggi ritrovo orfana anche del batterista (fantastico) nick d'virgilio. e allora, per curiosità ascolto il disco. e il disco ascolta me. e un po' ci facciamo felici a vicenda. suono progghissimo, pezzi ispirati, ottima scrittura (ogni tanto torna anche neal morse). niente di nuovo, però che bel disco.

domenica 21 aprile 2013

supertramp, "paris"




è strano il destino che è capitato ai supertramp. per qualche motivo si sono ritrovati col tempo confinati in una terra di nessuno che li vede rinnegati come dinosauri del rock e dimenticati completamente dalla gioventù odierna. eppure di dischi ne hanno venduti ma per qualche motivo non hanno lasciato un solco nella memoria come hanno fatto anche i peggiori "genesis" (ovvero qualsiasi cagata abbiano prodotto da seconds out in poi). e non si può nemmeno dire che la loro musica sia invecchiata male, lo dimostra ampiamente il successo che hanno avuto nel 2006 i gym class heroes con la loro cover/remake di breakfast in america.
ciononostante chiedete per strada a gente a caso se sanno chi siano i supertramp e 9 su 10 vi guarderanno come se parlaste in sarkazistano.

questi signori inglesi sono stati uno di quei casi in cui un conflitto nel gruppo ha portato ad un equilibrio precario che ha dato vita a dischi grandiosi quali "crisis, what crisis?", il pluripremiato "breakfast in america" e soprattutto (per me) "crime of the century", un capolavoro che oscilla continuamente tra rock, pop, progressive e atmosfere jazzate senza mai essere veramente nulla di tutto ciò. questo grazie proprio alla continua sfida tra le due menti, roger hodgson (chitarra, tastiere e vocina stridula) e rick davies (il sosia di gesù cristo, piano, piano elettrico, armonica e voce rauca).

però siccome 1) ci sono canzoni da ricordare in ognuno dei loro dischi fino al '79, 2) i best of mi stanno sul cazzo e 3) stiamo parlando di musicisti con due palle così, vi parlerò di quello che per me è il compendio assoluto di tutta la loro fase migliore, ovvero il live "paris", registrato nell'80 durante il tour di "breakfast in america".

in questo doppio troverete tutte le caratteristiche che rendono unici i supertramp, a partire proprio dal solco che divide le composizioni: da una parte hodgson, con la sua voce geddy lee style (a tal proposito c'è un collegamento abbastanza immediato proprio coi rush del secondo periodo) e le sue canzoni più improntate alla melodia "semplice" ed efficace, da the logical song a hide in your shell, take the long way home o a soapbox opera; dall'altra parte davies con pezzi più d'impatto strumentale e trame armoniche trainate dal suo splendido piano/piano elettrico: ain't nobody but me e bloody well right sono i due esempi più evidenti.
in mezzo però c'è tutto il meglio. dove i due approcci si incontrano arrivano i veri e propri capolavori: school, crime of the century, fool's overture, from now on, tutti momenti perfetti in cui si manifesta appieno quell'equilibrio fra generi di cui parlavo prima, attraversati da una vena epica talvolta quasi americana (i savatage ne sanno qualcosa) e da quella magia che solo i più grandi riescono a fare. e solo i grandi possono comporre una canzone come "rudy": apice totale del live (e della discografia del gruppo), malinconica e tesa, altalena di esplosioni ed implosioni legate da melodie perfette e incorniciata dal sublime arrangiamento di piano di davies, rudy è la sintesi totale di tutto ciò che erano i supertramp.

ho parlato finora solo di davies e hodgson perché sono i due principali artefici di questo suono unico ma ovviamente non si può dimenticare il resto della band: senza i fiati di john helliwell nulla di tutto ciò sarebbe possibile, le sue linee di sax sono parte fondamentale del corredo melodico della band, così come il groove solido dettato da dougie thomson e bob siebenberg (rispettivamente basso e batteria) garantisce il "rotolamento" necessario ai pezzi.
in "paris" troverete tutto ciò che c'è da sapere (ed è stato dimenticato da troppi) sui supertramp, senza tralasciare chiaramente le hit mondiali come the logical song o brekfast in america (con simpatico siparietto iniziale in cui davies fa incazzare i fan francesi raccontando della sua squisita cena... in un ristorante italiano. bravo gino.), brani storici perché pervasi da melodie che una volta entrate dalle orecchie non lasciano più la testa dell'ascoltatore ma anche esempi di classe superiore nell'arrangiamento e nella composizione.

penso si intuisca che vorrei andare avanti per giorni a parlare dei supertramp ma purtroppo non posso. quindi ora smetto di scrivere e riparto dal primo disco. fatelo anche voi.

crime of the century: http://grooveshark.com/#!/album/Crime+Of+The+Century/1173754
best of: http://grooveshark.com/#!/album/The+Very+Best+Of+Supertramp/1086192

martedì 16 aprile 2013

king's x, "gretchen goes to nebraska"




della serie: le cose buffe.
questo disco mi fu consigliato anni orsono (credo una decina) da qualcuno (ovviamente non ricordo chi). quando lo ascoltai però non rimasi particolarmente impressionato, sembrò un dischetto che scivola via tranquillo. poi per anni me ne sono completamente dimenticato.
pochi mesi fa per puro caso me lo sono ritrovato in casa e gli ho dato una seconda possibilità. ora è uno dei dischi che ho ascoltato di più negli ultimi 6 mesi.

i king's x sono comunque un gruppo buffo. son tre personaggi che non ti aspetti, a partire da doug pinnick, bassista di colore ed omosessuale che nei testi parla di quanto sia difficile per lui essere accettato come cristiano dalla comunità. wtf. la fiera della discriminazione parte da qui. poi però senti quella voce e improvvisamente tutto ha senso. quando lo senti sbraitare con la sua vociaccia soul raccontando di sua nonna che diceva di sentire continuamente musica da sopra la sua testa... per un qualche motivo tutto quadra.
over my head è anche uno dei pezzi più famosi e longevi nelle scalette del trio, i quali spesso e volentieri la dilatano fino ai dieci minuti.

ma cosa suonano i king's x? (o suonavano, gretchen è dell'89)
di base l'unica definizione che mi sento di dare è "rock", punto. senza dubbio si sente l'influenza dei rush post-permanent waves (l'arpeggio di summerland), così come c'è un occhio rivolto agli sviluppi di quel suono, queensryche in primis (send a message). d'altra parte il chitarraio ty tabor porta con sé manciate di beatles che sparge sottoforma di splendide armonie a tre parti in vari pezzi del disco (in particolare nella conclusiva the burning down l'influenza dei baronetti è lampante), così come pinnick porta, da bravo uomo colorato, una notevole dose di groove funk con slap sostenuto dalle ritmiche semplici ma efficaci di jerry gaskill, oltre alle inflessioni soul della sua voce (everybody knows).

il risultato di tutto questo mischione è un disco incredibilmente coeso e compatto che non stufa mai, anche considerata la qualità media dei pezzi che non cala mai per un secondo lungo tutta la durata (50 minuti) del disco. la magniloquenza di out of the silent planet, il groove assassino di over my head o don't believe it (uno dei capolavori dell'album), la placida malinconia di summerland, i cenni psichedelici di pleiades e le durezze di fall on me, tutto è perfetto qui dentro, non c'è un tassello fuori posto e tutto è approcciabile da chiunque grazie alla classe melodica del gruppo che incatena una serie di ritornelli incredibili.

non è difficile capire dove stia la forza di un disco così. trovarsi davanti dei musicisti così abili a spaziare tra decine di generi ma anche a mantenere un suono personale e sempre riconoscibile non è facile. che poi riescano a fare un disco strano ma catchy, semplice ma mai facile, profondo ma non intellettualoide, duro ma melodico... così al volo mi vengono in mente solo i rush. dici cazzi...
mi pento di tutto quel tempo della mia vita in cui non ho ascoltato gretchen. vi consiglio di fare altrettanto perché questo disco è praticamente un miracolo.

giovedì 4 aprile 2013

depeche mode, "delta machine"




io credo, ormai da un po' di tempo, che dopo i beatles i depeche mode siano la macchina pop perfetta per eccellenza. questo ovviamente per motivi che escono anche dall'ambito strettamente musicale, non c'è bisogno di ricordarli. ma analizzando anche solo le canzoni, il modo naïf con cui martin gore è stato in grado di snocciolare perle su perle per più di 30 anni è perfetto specchio di quella spontaneità e finta ingenuità che è alla base di tutto il pop. la loro musica non è (tranne in qualche caduta di stile) demagogica, ha solo la peculiarità di coincidere perfettamente con quello che il pubblico vuole e anche quando non lo fa (penso al sottovalutatissimo "exciter") ne esce comunque vincitrice grazie al preziosissimo contributo dei vari produttori che si sono avvicendati negli anni (altro aspetto classicamente pop, l'osmosi musicale dell'artista col produttore). basti pensare ai risultati ottenuti insieme a gareth jones su "black celebration" o con flood su "songs of faith and devotion".

ho citato tre dischi finora e non l'ho fatto a caso.
"delta machine" è il nome del nuovo arrivato che già nel titolo svela i suoi intenti: trovare un equilibrio tra il calore del blues e la freddezza delle macchine, tra, appunto, "songs of faith and devotion" e "black celebration". "exciter" invece mi serve per spiegare la mia prima impressione sul disco. ad un primo ascolto infatti, in vari momenti ho pensato che questo disco avrebbe potuto perfettamente stare al posto di "ultra". con ciò non dico che qualitativamente i due dischi siano sullo stesso piano, considerando per di più che "ultra" è uno dei miei preferiti. intendo invece indicare come canzoni come dream on o the sweetest condition tirassero già in questa direzione, prima che il revival a tutto spiano di "playing the angel" e "sounds of the universe" prendesse il sopravvento.

di questa nuova trilogia prodotta da ben hillier, "delta machine" è senza dubbio il disco più sincero, ispirato, sentito e motivato. per farla breve, è il migliore dei tre.
è un disco che si prefigge un obiettivo e lo raggiunge, grazie anche ai contributi compositivi di dave gahan (tre, come da tradizione) che firma almeno uno dei migliori pezzi del disco, should be higher, venato di soul quanto basta su un beat che non dà tregua. ottima anche  broken, a metà tra little 15 e suffer well.
ciononostante è ancora martin l'anima del disco, che con le sue canzoni permette a dave si dare tutto sé stesso, come nella strepitosa angel, lercia e trainante nella strofa prima della magistrale apertura del ritornello. che dire poi dell'inarrestabile soft touch/raw nerve che arriva a ricordare a question of time col suo martellamento incessante o del nuovo singolo soothe my soul, il più classicissimo degli inni depechemodiani interpretato con una verve e un calore che mancavano da un po' di tempo in questo modo.

poche le ballate nell'edizione standard. il primo singolo heaven (bella ma un po' troppo pilota automatico) e la malinconica the child inside, appuntamento fisso con la voce di martin, convincono senza esagerare. ci pensano invece slow e la conclusiva goodbye a regalarci dei lentoni caldi e profondi, sui quali dave la fa da leone (come gli è riuscito solo su qualche canzone della collaborazione coi soulsavers).

mi sento poi di citare my little universe, la quale più evidentemente di tutte le altre canzoni mostra quanto si sia divertito martin nel suo progetto vcmg com vince clark: suoni asciutti e pulsazioni elettroniche nel vuoto costruiscono un'ossatura che è ritmica e armonia al contempo in un esperimento perfettamente riuscito che riporta proprio al minimalismo techno di "ssss".

per riallacciarmi all'introduzione, penso che "delta machine" porti su di sé ancora tutti quei segni distintivi che rendono i depeche mode quella macchina perfetta. certo, la carica innovativa è svanita da un po' di anni, ma ricordiamoci anche che questi suoni loro hanno contribuito a crearli per cui le lamentele lasciano il tempo che trovano. quello che più ho apprezzato è il ritrovato calore, sia nei suoni che nelle melodie, e l'immutata capacità di scrivere canzoni incredibili che più che nei precedenti dischi torna a galla con decisione in un disco oscuro e dal suono crudo e sporco (per quanto possa esserlo un disco dei depeche nel 2013, intendiamoci). se siete delusi perché vi aspettavate altro, forse non vi piacciono così tanto i depeche mode. o magari dico stronzate io.

martedì 2 aprile 2013

steven wilson, teatro della luna, assago, 28-03-2013






e finalmente, con ritardo clamoroso, eccomi a parlare del ritorno di steven wilson sui palchi milanesi, a quasi un anno esatto dalla memorabile data all'alcatraz. un anno che ha visto la pubblicazione di due live, uno carino ("catalogue preserve amass") in cd e uno superlativo in dvd/bluray/cd/sticazzi ("get all you deserve"), e soprattutto dello splendido "the raven that refused to sing" che ha quasi bissato la grandiosità del suo eccelso predecesore, "grace for drowning".

inoltre la formazione vede l'ingresso del fenomenale guthrie govan alla chitarra, in sostituzione di niko tsonev che era sì piaciuto, ma anche rimasto un pochino anonimo, superato oggi dalla classe e dal suono pazzesco del lungocrinito inglese.

proprio dall'ultima fatica in studio parte il concerto, dopo una mezzora di proiezioni di facce mostruose che si fondono con una luna piena, tutto accompagnato da una nuova composizione dei bass communion. la tripletta luminol/drive home/pin drop presenta tutti i tratti salienti del concerto: suono cristallino e perfetto e musicisti in gran forma ricreano perfettamente le atmosfere misteriose dell'ultimo disco. wilson continua a migliorare come cantante e regge tutto il concerto in modo ottimo, suonando anche chitarra, mellotron e basso, beggs è una macchina del groove, passando anche allo stick con effetti devastanti su una holy drinker da lacrime e la sua sincronia con minneman ha del sovrannaturale; purtroppo ancora una volta, nonostante il nuovo disco, non mi ha affatto convinto proprio minneman, tecnicamente da incubi ma a mio modesto parere troppo sbrodolone e tamarro per molti pezzi. (wilson ci informa per altro che questa è la sua ultima data con la band per motivi contrattuali. in america verrà sostituito da... chad wackerman. pessimismo e fastidio.)
ad ogni modo nulla di tutto ciò infierisce più di tanto sul risultato finale per cui non sto a lamentarmi troppo. e poi c'è guthrie govan, con QUEL suono e quelle dita può fare qualsiasi cosa voglia ma, al contrario del compare e amico batteraio, il gusto lo porta sempre verso accompagnamenti o assoli magnetici che risaltano nel complesso senza mai essere sopra le righe.

eroi assoluti per quanto mi riguarda sono stati adam holzman e theo travis. il primo, grazie ad una tecnica che gli garantisce un controllo straordinario, si lancia in assoli di gusto jazz rock (che non è fusion) animati da vene melodiche di classe assoluta oppure arricchisce gli arrangiamenti con un pianoforte dal retrogusto classico che tanto sa di tony banks a modo suo. e come non pensare ai genesis quando il flauto traverso di theo travis si muove sinuoso sui leggiadri accordi della parte centrale di luminol? difficile rimanere indifferenti poi quando il suo sax o clarinetto portano di prepotenza il jazz su schitarrate hard da manuale.

i momenti migliori del tutto per me sono stati sicuramente l'infernale the holy drinker, the watchmaker con tanto di video d'introduzione (ed effetti sonori che forse forse ricordavano vagamente time dei pink floyd), la sempre splendida index e il trittico finale, apice assoluto dello show: raider ii, lunga discesa in un abisso frippiano senza ritorno, the raven that refused to sing, accompagnata dal commovente video, vero climax emozionale del concerto, e, a sorpresa... l'esecuzione completa di radioactive toy dal primo disco dei porcupine tree. 12 minuti di psichedelia liquida che risvegliano ombre di un passato chiamato "coma divine" e incantano il pubblico, ipnotizzato di fronte a cotanta grandiosità.

mi pare che non ci sia gran bisogno di conclusioni. chi segue il blog sa cosa penso di steven wilson e questo concerto non ha fatto altro che confermare ulteriormente il mio pensiero: non è un innovatore ma è originale e genuino, non è uno strumentista tecnico ma un fine compositore ed un ascoltatore professionista. in poche parole, c'è tanta gente che prova a fare progressive oggi. wilson arriva e mostra a tutti come farlo meglio. che robert fripp lo benedica per questo. ah, già. l'ha già fatto.


scaletta:

luminol
drive home
the pin drop
postcard
the holy drinker
deform to form a star
the watchmaker
index
insurgentes
harmony korine
no part of me
raider ii
the raven that refused to sing
radioactive toy

giovedì 28 marzo 2013

nanodischi #4: marzo 2013




david bowie - the next day (2013)

considerando che david bowie mi ha sempre detto molto concettualmente ma poi musicalmente non è mai risucito a fare un disco che riuscissi ad ascoltare dall'inizio alla fine, devo dire che questo nuovo album mi ha stupito. ha dei gran bei pezzi vecchio stile (periodo glam) e qualche ombra di berlino qua e là. se siete fan suppongo vi piacerà. nonostante la copertina.

jim james - regions of light and sound of god (2013)

interessante esperimento quello di jim james. registra l'intero disco da solo creando ambienti sonori molto aperti e ariosi grazie a costruzioni chitarristiche di una certa importanza e arrangiamenti che lasciano il respiro necessario alle composizioni. alla lunga però la voce è stucchevole e stanca e i pezzi tendono ad assomigliarsi un po' troppo.

byrds - younger than yesterday (1967)

ogni tanto è giusto ricordare da dove arrivi tutto quanto. in questo disco i byrds, come anche i beatles nello stesso periodo, iniziano a imbastardire le composizioni con effetti strampalati, nastri al contrario e analità varie. ne esce un disco che è una luce nel buio per chiunque cerchi sincera e genuina ispirazione, un capolavoro che non conoscere è un crimine orribile nei confronti della cultura. sapevatelo.

fates warning - disconnected (2000)

in quel periodo in cui quello che viene chiamato "prog metal" o "neo prog" (o altri ridicoli nomi inventati dalla stampa) stava agonizzando in una pozza del suo stesso rugurgito di migliaia di note inutili, due gruppi potevano salvare il mondo: i pain of salvation e i fates warning. "disconnected" è un disco geniale che porta alle estreme conseguenze il suono di "a pleasant shade of gray": cupo, ossessivo, disperato, attraversato da micidiali correnti elettroniche e sostenuto dalla sempiterna voce di ray alder. più cervello di così si muore. o si è robert fripp.

ben harper/charlie musselwhite - get up! (2013)

beh harper mi ha sempre, sempre, sempre, sempre rotto il cazzo. noioso, lagnoso, sciapo e inutile. e invece. e invece questo disco è una figata. alleatosi con l'armonicista charlie musselwhite, lo smuntino di pomona (che, giusto perché fa ridere dirlo, è lo stesso luogo natale di tom waits) tira fuori un disco blues che più blues non si può: sporco, crudo e diretto, con tutti i riferimenti del caso, da robert johnson a john lee hooker e tutto quello che ci sta in mezzo. non avrà conseguenze sul mondo della musica ma si ascolta che è un piacere.

chicago - 3 (1971)

ah sì, i chicago, quelli di "hard to say i'm sorry". no. proprio no. loro sono sì i chicago, ma prima di quella merdaglia che hanno buttato fuori negli anni 80 erano un gruppo funk rock con due palle come cocomeri. ascoltando "3" non si può stare fermi, è un flusso unico di groove, melodie stellari e arrangiamenti sublimi (soprattutto per la sezione fiati) che spesso e volentieri sfociano in jam collettive che devono aver abitato i sogni di omar rodriguez lopez per molto tempo. dimenticate gli anni 80, i chicago veri stanno qui.

subterranean masquerade - home (2013)

dopo otto anni di attesa, ecco l'aperitivo (ep di due pezzi) prima del nuovo disco, in uscita nei prossimi mesi. con mani tremanti schiaccio play. e rimango deluso. i due pezzi non dicono veramente una fava. le idee sono confuse, nel loro passare da un genere all'altro creano stacchi che suonano incollati l'uno all'altro, senza dare quella coesione ed atmosfera che rendevano "suspended animation dreams" il discone che è. inoltre, i suoni: il primo pezzo è iperprodotto e compresso e uccide le dinamiche invece di esaltarle, il secondo suona come un demo registrato in cameretta. speriamo che questi fossero scarti, se il disco segue queste coordinate potrebbe trattarsi della peggior delusione da un bel po' di anni a oggi.

pinnick gales pridgen - pinnick gales pridgen (2013)

tre musicisti dalla tecnica e feeling indiscutibili si mettono insieme per divertirsi un po'. non è certo cosa nuova, soprattutto nella lista di produzioni della magna carta che dai liquid tension experiment in poi ha fatto dei supergruppi un motivo di vita. qui l'alchimia funziona veramente bene, il soul rock hughes-iano di pinnick (king's x) si fonde col groove mortale e la tecnica di thomas pridgen (ex-mars volta per chi non lo sapesse) e la chitarra hendrixiana (e vaughaniana) di eric gales (lauryn hill e mille progetti e collaborazioni) a creare un disco in cui rock, soul, funk, blues e hard si fondono armoniosamente. per tutti i fan della buona musica suonata.