venerdì 22 luglio 2011

porcupine tree, "fear of a blank planet"



sarò molto onesto e partirò dall'inizio, da diciamo gennaio/febbraio 2007, quando i blackfield fecero uscire il secondo splendido capitolo della loro discografia. i porcupine tree arrivavano da un tirare in lungo e in largo "deadwing" e da alcune decisioni nelle loro scalette piuttosto discutibili. come ad esempio suonare una bella carrellata di b-sides e singoli e nulla dalle produzioni passate.
per di più diciamolo una volta per tutte, "deadwing" ha una bella atmosfera, alcuni pezzi veramente epocali ma in generale non si può certo dire che sia il loro capolavoro, anzi, personalmente credo di trovarlo il loro disco meno riuscito in generale. ecco insomma, sommate tutto questo al fatto che chi scrive ancora si commuove ascoltando "coma divine" e rimpiange i tempi in cui i porcospini erano quelli di "the sky moves sideways" o "signify" ed otterrete il grado di perplessità che si annidava in me quando iniziarono a girare le voci sul nuovo disco "ancora più metal"...

mi pento. mi pento profondamente. "fear of a blank planet" è l'opera più riuscita dei Porcupine Tree dai tempi di "lightbulb sun". sì, è vero, ci sono i chitarroni e le parti pestate. da qui a chiamarlo un disco metal però c'è un abisso. i suoni di questo disco fanno paura, penso che quell'anno solo i Rush siano riusciti ad avere dei suoni a questo livello. sono impresisonanti. è impressionante il suono della batteria, la profondità dei tom, dei timpani e della cassa, la definizione del rullante, la pulizia dei piatti. è commovente il suono delle chitarre acustiche, limpide e costruite nel vuoto, per non parlare del muro di suono che si viene a creare con le distorsioni, assolutamente devastante (esemplare è la parte centrale di "anesthetize"). il basso di colin è il solito macchinario macinatore di groove anche se se le parti effettivamente groovose sono ridotte rispetto al passato. ciononostante il basso è sempre udibile distintamente lungo il disco e svolge un lavoro egregio. le tastiere poi sono il solito grandioso collante, perfette per amalgamare insieme tutto ciò che è stato descritto finora coi loro suoni aperti ed impalpabili sempre modellati con gusto e classe da barbieri.

ovviamente tutto questo è finalizzato alla massima resa dei pezzi, che a livello compositivo giocano brutti scherzi. se ai primi ascolti si rimane spiazzati (soprattutto per la spudorata somiglianza del primo riff del disco con quello portante di "deadwing"), col passare del tempo si iniziano a cogliere tutti i particolari e non si può che rimanere a bocca aperta per la fantasia che mr.wilson dimostra ancora una volta di avere e di saper utilizzare. la materia sonora che aveva avuto il suo battesimo su "in absentia" viene qui stemperata in un'opera totalmente coesa e coerente con sé stessa senza mai risultare uno sfogo di autocompiacimento e senza mai essere ripetitiva. suona più come un blocco, un'unica canzone divisa in sei parti piuttosto che un disco di sei canzoni differenti. opera che ha senza dubbio il suo centro nevralgico nella già citata "anesthetize", tortuosa nei suoi quasi 18 minuti, ipnotica nella prima parte, sorta di danza tribale tecnologica, devastante nella parte centrale condotta da chitarre compresse e dal drumming stellare di gavin harrison (che dà su questo disco una prova di gusto ritmico ed intelligenza veramente superiori alle possibilità umane...) per poi andare a dilatarsi e distendersi nelle onde di cori della coda, assolutamente da brividi.
il fatto che "anesthetize" sia il centro non vuol dire che il resto del disco sia tanto da meno. una cosa che sorprende è un certo deciso ritorno alle rarefazioni ambientali, presenti si anche in "deadwing" o "in absentia" ma in modo diverso. qui si cerca un'inquietudine forte, cercano di farci paura, sicuramente in modo da dare risalto maggiore al concept del disco, incentrato sui danni che la società tecnologica può creare sulle menti più giovani e malleabili. un pezzo come "my ashes" è emblematico in questo senso: trascinato, languido, aperto e cantato "in punta di lingua" da uno steven più in forma che mai con la voce.

e in tutto questo non ho parlato degli ospiti, delle mani magiche di Alex Lifeson che tessono le trame di un assolo da pelle d'oca in "anesthetize", della mente malata di mr.Robert Fripp che crea textures di soundscapes lungo tutta la drammatica "way out of here" e della voce di john wesley che finalmente compare anche su un'uscita in studio del gruppo inglese e non solo come turnista, dando maggiore spessore alle strutture vocali costruite da wilson lungo tutto il disco (leggasi "quei cazzo di cori, sbav").
inutile dilungarsi oltre, sono tutte cose che ognuno di voi può (e deve) scoprire da solo, mettendosi le cuffie ed ascoltando al buio in solitudine questo disco. capolavoro? il tempo ce lo dirà. sicuramente uno dei dischi più riusciti di wilson &co.