venerdì 22 luglio 2011

the devin townsend project

ki


gli strapping young lad si sono sciolti. la devin townsend band si è disgregata (circa). era evidente che il canadese avesse bisogno di una pausa. anche le ultime due prove in studio, “the new black” e “ziltoid”, per quanto più che valide, mostravano una preoccupante tendenza al ristagno di idee. 
oggi devin townsend, diventato padre, si ripresenta al mondo cambiato, ripulito. e lo fa con un nuovo mastodontico progetto di quattro dischi di cui questo è solo il primo. 
ha parlato di dischi molto diversi tra loro ma con un filo conduttore. “ki” dovrebbe essere l'introduzione a questo nuovo mondo, un'introduzione fatta sottovoce, senza fretta. 

forse l'affermazione più esatta da fare su “ki” è che fa sentire a casa. l'atmosfera è sognante ma concreta, merito in buona parte dei bellissimi suoni adattati e del mix non più caotico come prima ma che ora tende ad accentuare le dinamiche generali dei brani, mai così curate come qui.
altro aspetto importante da notare è come le canzoni siano state svuotate dai quintali di suoni ambientali che da sempre contraddistinguono il canadese (quelle che in “terria” fungono anche da collante tra le canzoni).
da segnalare la grande prestazione di tutti i musicisti coinvolti, fra cui spicca il tocco vintage di duris maxwell, collaboratore ai tempi di jefferson ariplane e stevie wonder e si dice che addirittura jimi hendrix gli chiese di suonare con lui, sempre composto ed elegante ma con un suono particolarmente caldo e live. 

e poi ci sono le canzoni. prevalentemente prive di distorsioni, rilassate, melodiche e liquide, si alternano tra perle melodiche come “coast”, “lady helen” o la strepitosa “terminal”, colma di una malinconia infinita, momenti più psichedelici e leggeri come “ain't never gonna win” o “winter” e grandiosi crescendo che arrivano quasi alla tanto agognata esplosione come le stupende “heaven send” o “ki”. tutto fa parte di un unico disegno che si rivela solamente tramite un ascolto completo e attento, possibilmente in cuffia per cogliere la miriade di sfumature e particolari di cui il disco è cosparso in ogni parte.
un artista che dopo più di quindici anni di attività ha ancora voglia di sperimentare col suo suono e di cercare nuove strade per esprimersi non può che essere apprezzato per questo. se ci poteva essere qualche dubbio sul futuro di townsend, “ki” lo spazza decisamente via.


addicted


ed ecco qui la seconda parte del mega-concept, quella pop e divertita.
ricordate “christine” su “infinity”, o i pezzi più melodici di “physicist”? ecco, questo secondo capitolo è molto vicino a quelle sonorità. il che mette subito in luce due aspetti: primo, la vena melodica di townsend risulta ispirata e convincente, regalando brani di sicura presa e impatto come “addicted!”, “supercrush!” o “bend it like bender!”, secondo, dobbiamo purtroppo dimenticarci buona parte dell’evoluzione segnata da “ki”: torniamo qui ad un suono compresso, massiccio, costruito di nuovo sui tappeti ambientali che “ki” aveva tralasciato.
l’aver poi coinvolto una cantante come anneke van giersbergen nel progetto fa il paio con la dichiarazione di devin che il disco è stato influenzato anche da gruppi euro-dance come i trashissimi vengaboys. a differenza di questi però le melodie di "addicted" hanno classe, anche grazie alla prestazione della perfettamente integrata anneke.

ed ecco a voi allora il disco pop di devin townsend.
vogliamo dire pop metal? si può fare. sicuramente i chitarroni non sono stati dimenticati, l'inizio del disco lo mette bene in chiaro e forse questo è l'unico vero "problema" del disco: la sua parte più metal lo rende sicuramente più stereotipato ma anche dannatamente efficace. vi risulterà molto molto difficile staccarvi i ritornelli di "bend it like bender!", "addicted!" o "ih-ah!" dalla testa, così come è difficile non rimanere a bocca aperta di fronte alle aperture di "numbered!".

potremmo discutere di pregi e difetti di questo disco per ore ma la verità alla fine è una: se lo accettate per quello che è non potrete più farne a meno, ruffiano e subdolo com'è. e vi terrà occupati fino al momento in cui avrete il coraggio di avvicinarvi a "deconstruction".



deconstruction


dicono che le grandi imprese fanno grandi gli uomini. ma se non c'è grandezza nell'anima di un uomo è molto difficile che egli possa fare qualcosa di davvero grande.
che devin townsend abbia della grandezza in sé è sempre stato chiaro ed evidente, opere come "terria", "city" o "infinity" non si scrivono da sole, ma qui è stata varcata una linea. qui ogni limite è stato spinto fino al suo estremo, ogni sfaccettatura della musica del canadese è stata presa e portata ad un livello che solo la sua mente poteva concepire.

"deconstruction" è il terzo capitolo del devin townsend project e arriva a noi con dichiarazioni quali "è il disco più pesante ed estremo che abbia mai fatto". non si può che dare ragione allo sciroccato.
ogni secondo del disco sprizza grandeur, mostruosa enormità deforme in cui tutto viene massacrato, polverizzato e ricomposto per dare vita ad una fiaba macabra ed incredibilmente stupida allo stesso tempo (la title-track viene introdotta da rutti e scoregge prima di rivelarci che tutte le verità dell'universo sono racchiuse in un cheeseburger). è un lavoro mastodontico che fa venire gli incubi di notte al solo pensiero che qualcuno l'abbia scritto, arrangiato, registrato e mixato in questo modo.
oltre alla base voce-chitarre-basso-synth-batteria (due batteristi coinvolti, il fidato ryan van poederooyen e dirk verbeuren, già con soilwork, aborted ed altri) troviamo infatti l'intera orchestra e coro di praga ad ingigantire ulteriormente il suono.
ma come suona "deconstruction"? pesante. quando decide di picchiare non avete scampo, vi si riversa addosso un motocarro di legnate che non potete evitare. "juular", "pandemic" o "poltergeist" non lasciano dubbi al riguardo: rispolverate le sonorità più brutali degli strapping young lad devin ha avuto la bella idea di infarcirle di arrangiamenti orchestrali e urla lancinanti, ad opera anche di una nutrita schiera di ospiti.
quando invece il massacro si fa più ragionato, ecco arrivare le canzoni più lunghe del disco, articolate in vertiginosi crescendo che esplodono ed implodono in mille modi diversi, grazie anche ad un mastering lontano dalle logiche moderne (che prevendono un ragionamento del tipo "cazzo me ne frega delle dinamiche, io schiaccio tutto e faccio suonare tutto uguale") che accentua al massimo le escursioni dinamiche. "stand" o l'infinita "the mighty masturbator" sono emblematiche in questo senso, con la seconda che si produce in una parte centrale da rave spaziale/infradimensionale assolutamente delirante, con greg puciato a sbraitare come un ossesso.

si potrebbe fare un analisi di ogni pezzo ma staremmo qui due anni. il fatto è questo: "deconstruction" è un disco pesante, sia in senso che contiene musica pesante sia in senso che è pesante da digerire e metabolizzare, richiede più e più ascolti per potersi orientare nel labirinto di soluzioni che sfrutta. in questo senso non è certo un disco per tutti ma se non vi farete intimorire e riuscirete a farvi avvolgere da questo inferno sonoro, ne uscirete con la convinzione che devin townsend sia oggi un artista enorme, che non ha paura di esagerare e fare cose che noi comuni mortali non faremmo mai. in più avrete anche tutte le ossa rotte.
cazzo volete di più?

ghost


bene/male, bianco/nero, dolce/salato, sono tanti gli opposti inventati da noi con cui conviviamo ogni giorno. sono quelle cose che ci inventiamo per tenerci in equilibrio, per avere dei riferimenti nella nostra mente. deconstruction/ghost è la nuova dicotomia di townsend. dove uno arriva per distruggere con furia irrefrenabile, l'altro giace placido in riva a un lago in alba estiva, quando uno urla e si contorce in infinite evoluzioni l'altro sussurra e si stende su panorami sonori semi-statici che si estendono a perdita d'occhio.

questo è "ghost", quarto ed ultimo capitolo del devin townsend project. un disco che profuma di colori tenui spesso solo accennati, che inebria con una tavolozza di suoni eterei ed impalpabili che circondano e tolgono il fiato.
inutile citare canzoni, questo è il disco ideale per andare alla deriva in acque irrorate della luce rosa dell'alba, è la conclusione di un cerchio i cui primi tratti erano tracciati da "ki" e proprio a quel primo capitolo si riallaccia. ma se "ki" era un disco focalizzato su pezzi asciugati dalle infinite texture ambientali, "ghost" è l'esatto opposto, qui le texture sono tutto. si potrebbe definire un disco ambient per molti motivi, anche se non sarebbe esatto. è un disco versatile, può essere ascoltato sia attivamente per cogliere i frutti di una lavorazione certosina e maniacale sia passivamente, lasciandosi cullare dalla calma marea che vi farà sognare come poche opere al mondo.

qui finisce il progetto e qui possiamo finalmente tirare un sospiro di sollievo: townsend ci ha dato tutto, ha creato dei limiti, li ha superati, ha destrutturato la sua intera carriera e l'ha ricomposta in quattro dischi che sono la summa assoluta della sua arte. magari non i migliori, ma questa è questione di gusti, sicuramente quelli che meglio esemplificano la spaventosa varietà di idee e mezzi che egli ha a sua disposizione.