venerdì 22 luglio 2011

comus, "first utterance"



la luce è grigia, spettrale, avvolta in una gelida nebbia che lascia solo immaginare cosa si nasconda nella brughiera deserta. le foglie danzano cadendo dagli alberi che sogghignano tendendo le loro braccia rinsecchite rivolte verso il nulla. la danza dei comus è iniziata.

formato nel 1967 dai due chitarristi glenn gorin e roger wootton, il gruppo prende il nome da un'opera di john milton riguardante uno dei più grotteschi degli déi del pantheon greco, comus appunto. il duo iniziò a suonare nei locali presentando cover rivisitate dei velvet underground e brani tradizionali inglesi, facendo amicizia nel frattempo con david bowie che di lì a poco si sarebbe ricordato di loro, invitando il gruppo ad aprire il suo concerto alle purcell rooms.
nel frattempo la formazione diventò un sestetto, incorporando andy hellaby al basso, colin pearson al violino e viola, rob young al flauto, oboe e percussioni e la sedicenne bobbie watson per le voci femminili ed ulteriori percussioni.
questa la formazione che nel 1970 registrò "first utterance", disco destinato ad essere oggetto di culto per moltissimi anni e che vede anche oggi una propria rinascita grazie soprattutto ai continui proclami entusiastici di mikael åkerfeldt, leader degli opeth, la cui musica è sempre stata indubbiamente influenzata dal fascino sinistro di questo dischetto.

l'apertura è affidata a "diana", perennemente in equilibrio tra aggressività acustica, danza popolare e sinistri presagi. c'è un'aria di follia che attraversa tutto il disco, creata soprattutto dagli isterici vocalizzi di wootton, splendidamente contrappuntati dalla watson. si potrebbero usare migliaia di parole per definire ciò che si sente: prog acustico, folk prog, dark folk, psichedelia... e come al solito nessuno di essi riesce in alcun modo a dare un'idea precisa di quello che accade lungo il corso delle canzoni. "diana" fu il primo ed unico singolo estratto dal disco ed il singolo è oggi una vera e propria rarità.
se l'apertura lascia straniti, quello che segue non rassicura: "the herald" è ipnotica, magnetica se non addirittura catartica nel suo lento srotolarsi per dodici minuti su leggiadri ed infiniti arpeggi di chitarra su cui la voce di bobbie watson danza e incanta. il senso di disagio si trasforma presto in desiderio, desiderio di venire completamente avvolti in questa nebbia mistica e non uscirne mai più.
il gruppo dal canto suo non dà certo modo di scappare: infatti, subito segue "drip drip", schizofrenica danza foriera di una violenza che non può lasciare
indifferenti, altri dieci minuti di rapimento, una delle più sublimi rappresentazioni di follia mai create. andando ad analizzare le singole parti si può risalire ad alcuni protagonisti del folk rock inglese come fairport convention piuttosto che alcuni momenti dei traffic. fatto sta che ognuna di queste influenze viene distorta dalla furia del gruppo che ha imparato la lezione dei velvet underground ed usa l'aura sinistra ed oscura di reed per rendere ogni brano una perla oscura. come se venisse dipinto un quadro che mostra creature mostruose e deformi avvolte in una fitta nebbia; il gruppo dipinge per poi
strappare la tela e rivelare la realtà dietro ad essa e lasciarci basiti nel constatare che nulla è cambiato.
ogni canzone è un viaggio a sé, ognuna con le sue peculiarità che la rendono assolutamente unica, dall'inno quasi tribale in "song to comus" passando per la frenetica "the bite" e il terrificante intermezzo "bitten" fino ad arrivare alla conclusiva "the prisoner", agghicciante ritratto di un recluso in un manicomio sottoposto ad elettroshock che racconta le sue sensazioni in uno stato di equilibrio tra insensibilità, terrore e rabbia lacerante, condensata in un finale da far accapponare la pelle.
un disco sicuramente figlio del suo tempo ma anche avanti di almeno dieci anni nelle sue intuizioni che verranno poi riprese da migliaia di silenziosi estimatori, un'opera d'arte unica ed irripetibile, tanto che il secondo disco del gruppo, "to keep from crying", avrà solo alcuni sprazzi della genialità del suo illustre predecessore.
un capitolo unico nella storia della musica al quale non è stato reso il giusto tributo dal mondo. non è mai troppo tardi per rimediare, non privatevene oltre.